
In queste settimane così drammatiche e anomale, da più parti, si sono lodati gli sforzi e i sacrifici di bambini e di ragazzi, costretti allʼisolamento e al drastico cambiamento di abitudini di lungo corso. Si tratta di categorie che indubbiamente vivono un momento di grande difficoltà emotiva, ma che hanno una lusinghiera prospettiva di vita, un numero più ridotto e gestibile di preoccupazioni e di ʻʻesigenzeʼʼ (personali e non solo), e la possibilità di rifarsi del tempo perduto, si spera quanto prima. Nessuno, invece, ha speso una parola per la mia generazione, quella nata negli anni Ottanta, e che ha pagato il prezzo – carissimo – di tutti gli errori, voluti consapevolmente (come collettività alle prese con un consumismo, più o meno desiderato, che ha infine fagocitato se stesso) e altrui ancora di più, di tutte le brutture di un sistema iniquo, sempre più frenetico, e che continua a pagare per colpa di una globalizzazione feroce, contro Natura, di una corsa alla privatizzazione folle, di scelte alimentari, ʻʻmedicheʼʼ e quotidiane compiute da singoli individui, in un mondo pericolosamente interconnesso dove davvero il battito di ali di una farfalla o lo starnuto di Confucio, come suggeriva un antico detto poi in voga al tempo dellʼAsiatica, possono produrre effetti devastanti su scala mondiale. La mia è la generazione di quelli che hanno conosciuto una sola parola: ʻʻrinunciaʼʼ. Sì, abbiamo rinunciato a tutto. Al contratto, alla stabilità economica, alla famiglia, ai figli, allʼaria salubre, ai sapori di una volta, alle relazioni sane. A tutto. In nome di una maledetta competitività imposta. Nel nome di unʼEuropa che non esiste, che non può esistere. Nel nome di governi poco lungimiranti o interessati unicamente al proprio orticello. Nel nome di una cieca voglia di sgomitare, di essere sempre i primi della classe. Ma non esiste nessun premio.
Esistono solo i Padroni, in questo gioco al massacro. I Buoni Padroni. I Cattivi Padroni. Siamo noi che ci siamo giocati la vita, siamo noi ad aver già sperimentato diverse forme di ʻʻdistanziamento socialeʼʼ, una sorta di vuoto, di grande pozzo nero, che è dellʼanimo prima ancora che fisico, siamo noi ad aver vissuto letteralmente sulla nostra pelle la crisi economica senza fine del 2008 e che la vivremo nei mesi che verranno, decuplicata. Nessuno parla di noi.
Non sono le piccole rinunce della vita di tutti i giorni a spaventare, ma è il grido dei morti di questa guerra a straziare e quello, ancora più sinistro, dei vivi che hanno smesso di sognare. É lʼidea di una vita che resta sospesa malgrado gli sforzi, la sensazione che ogni volta che ti stai rialzando arriva una batosta, di una notte infida che ha puntato un coltello alla gola come cantava, magnificamente, De André, che è al contempo una questione oggettiva e dannatamente soggettiva, ad annientare. Ecco, io vorrei che un applauso venisse fatto anche alla mia generazione, a noi che ci muoviamo come esercito invisibile nel silenzio di un lungo inverno nordico, combattenti senza armi mandati allo sbaraglio contro un generale oscuro assetato di sangue e di vita, verso un futuro più che mai incerto. Eppure, resistiamo.
di Eleonora Belfiore
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