
Blitz della Polizia di Stato a Trapani e provincia, dove gli uomini del Servizio Centrale Operativo, delle Squadre Mobili delle Questure di Trapani e Palermo, hanno eseguito 13 fermi di indiziato di delitto, disposti dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, nei confronti di altrettanti indagati, di cui alcuni vicini al boss latitante Matteo Messina Denaro, accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione, incendio, furto, favoreggiamento personale e corruzione elettorale, aggravati dal metodo mafioso o comunque per essere stati finalizzati a favorire Cosa Nostra.
Le indagini, sviluppatesi mediante l’utilizzo delle più recenti e sofisticate tecnologie, hanno permesso di ricostruire una fitta rete di affiliati e fiancheggiatori della compagine mafiosa facente parte del mandamento alcamese, operante principalmente nel comune di Calatafimi, nota località di interesse storico e termale.
Personaggio centrale, al vertice capo della locale famiglia mafiosa un noto pregiudicato già condannato per 416 bis nell’ambito dell’indagine che nel 2012 aveva portato all’arresto di altrettanti affiliati appartenenti anche alle famiglie di Castellammare del Golfo e di Alcamo.
A lui facevano riferimento gli odierni fermati, che riceveva riservatamente all’interno di una fatiscente dependance attigua alla sua masseria.
In quel contesto venivano assunte le principali decisioni riguardanti gli accadimenti ritenuti rilevanti per Cosa Nostra, monitorate le dinamiche criminali del contesto territoriale di riferimento e risolti i dissidi nascenti all’interno della stessa comunità rurale.
A dimostrazione dello spessore del referente della famiglia mafiosa locale, è stato progressivamente accertato che egli fosse diventato interlocutore privilegiato di soggetti e personaggi provenienti da altri contesti territoriali, gestiti da altre famiglie mafiose. Sono stati infatti monitorati anche rapporti extra mandamentali, a dimostrazione di un certo scompaginamento dei tradizionali equilibri scaturenti dalla pressione degli apparati repressivi.
Tra gli indagati spiccano infatti i nomi di personaggi già condannati per mafia coinvolti nelle vicende della veicolazione dei “pizzini” diretti al capo indiscusso di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, venute alla luce nel corso delle varie fasi dell’operazione denominata “Ermes”.
Nelle indagini sono finiti però anche insospettabili soggetti, non gravati da precedenti penali, che, a vario titolo, avevano favorito le comunicazioni tra il capo della famiglia calatafimese, specie nel periodo in cui era sottoposto alla sorveglianza speciale, ed altri compartecipi all’associazione mafiosa.
In manette anche l’imprenditore agricolo Andrea Ingraldo, di origini agrigentine, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver assunto fittiziamente il leader della famiglia di Calatafimi Nicolò Pidone, al fine, tra l’altro, di far figurare l’esistenza di una regolare posizione lavorativa per ottenere un trattamento meno afflittivo nell’ambito di un procedimento per l’irrogazione di una misura di sicurezza di cui è destinatario.
Le indagini hanno dimostrato la consueta capacità del sodalizio criminale di “controllare il territorio”, attraverso l’esecuzione vere e proprie inchieste per ricostruire eventuali episodi criminosi avvenuti in zona e non previamente “autorizzati” nonché di intervenire con atti intimidatori mirati, nei confronti di persone che, in qualche modo ed in specie collaborando con la giustizia, avessero posto in essere comportamenti tesi ad ostacolarne l’operatività .
In quest’ultimo ambito si inquadra l’incendio della vettura dell’imprenditore Caprarotta Antonino, ordito dallo stesso Pidone Nicolò e realizzato con il concorso degli altri fermati ed aderenti all’associazione mafiosa, Aceste Giuseppe, Sabella Antonino – quest’ultimo già in carcere perché colpito da provvedimento restrittivo a seguito dell’operazione “Cutrara”, coordinata dalla D.D.A di Palermo, nello scorso giugno – e Fanara Giuseppe, agente di commercio.
Infatti, lo stesso impresario, nell’ambito dell’attività di indagine della Procura di Trapani aveva proposto denuncia contro l’imprenditore di Isca Francesco ed altri soggetti implicati nella vicenda della gestione dei parcheggi del parco archeologico di Calatafimi – Segesta, culminata nell’emissione di provvedimenti restrittivi a carico del predetto imprenditore e nei confronti dell’ispettore della Polizia Municipale Caprarotta Salvatore.
Tra le persone fermate figurano anche Gennaro Giuseppe, altro esponente della famiglia mafiosa di Calatafimi, accusato, oltre che di associazione mafiosa, anche di aver rubato un trattore agricolo, nell’interesse dell’associazione stessa, unitamente agli altri esponenti di Cosa Nostra Francesco Domingo, Stabile Sebastiano e Salvatore Mercadante, raggiunti da provvedimenti restrittivi nell’ambito dell’indagine “Cutrara” incentrata sulla famiglia di Castellammare del Golfo.
Destinatario di fermo anche il trentasettenne calatafimese Chiapponello Ludovico, indagato per aver favorito l’associazione mafiosa mediante l’effettuazione di un’attività di bonifica, finalizzata alla rilevazione della presenza di eventuali microspie all’interno della fatiscente dependance del capo della famiglia mafiosa Nicolò Pidone.
Tra gli indagati anche un appartenente alla Polizia Penitenziaria, cui è contestato il reato di rivelazione di segreto d’ufficio, commesso al fine di agevolare Cosa Nostra.
Le attività tecniche hanno dimostrato che il sodalizio mafioso avesse la disponibilità di armi occultate, oggetto di ricerca nel corso delle 20 perquisizioni effettuate, anche con l’utilizzo di sofisticate apparecchiature in dotazione alla Polizia Scientifica e di unità cinofile antiesplosivo.
Alla base dei fermi, oltre alla circostanza appena citata, alcune esternazioni degli affiliati di volersi dare alla latitanza, nel caso fossero stati attinti dalle indagini e diretti riferimenti a pesanti ritorsioni per punire, a breve, uno degli affiliati, reo di un comportamento non corretto nei confronti del capo della famiglia di Calatafimi.
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