Quel bacio infondo al mare

Avevo appena preso servizio, un’altra notte mi attendeva a sorvegliare le coste della mia amata terra. Il mare un po’ mosso non avrebbe consentito

Quel bacio infondo al mare

Avevo appena preso servizio, un’altra notte mi attendeva a sorvegliare le coste della mia amata terra. Il mare un po’ mosso non avrebbe consentito sbarchi improvvisi. Si prefigurava una notte tranquilla. Avevo portato da casa una gustosa merenda fatta di melanzane e provola affumicata, una birra comprata al bar del porto, erano il passatempo in attesa di eventuali soccorsi in mare. La vita di agente della guardia costiera mi appassiona, faccio questo lavoro con entusiasmo da quando avevo 26 anni dedicandomi anima e corpo alla vita di mare. Ma quella che sembrava la notte senza emozioni ne provocò una che ha messo in discussione tutta la mia esistenza, tanto da farmi ricordare questa notte come la più bella che abbia mai vissuto. Avevo finito di mangiare la mia cena a sacco, guardavo la domenica sportiva, e non essendo fidanzato non potevo parlare con la ragazza come facevano i miei colleghi. Così, tranquillo e placido, mi gustavo la vittoria della mia squadra del cuore. All’improvviso la sirena avvisa di un pericolo in mare: dobbiamo uscire, urge la nostra presenza, un barcone di clandestini è in avaria. Scatta l’operazione salvataggio. In pochi munti siamo già in mare. Dopo mezz’ora di navigazione raggiungiamo il punto esatto del barcone. A bordo c’erano più di cento persone, eravamo tre motovedette della guardia costiera in quella operazione recupero di clandestini. Nel silenzio della notte, si udivano solo grida di persone in cerca di aiuto. Molte di loro, quelle che sapevano nuotare, si erano già buttate in acqua. Lanciammo i salvagenti. La barca si inclinava sempre di più, e c’era il concreto pericolo che tutti finissero in mare. All’estremità posteriore del barcone notai una ragazza che ormai era in preda al panico più totale, cercai di dirigermi verso di lei per portarla sulla nostra barca. Mentre mi avvicinavo lei cadde in mare. Non sapeva nuotare. Mi resi subito conto che l’avrei persa se non tentavo di raggiungerla, purtroppo il mare la trasportava lontana dal barcone. Non avevo altra scelta se non quella di buttarmi. Non ero ancor equipaggiato, ma ugualmente mi tuffai in acqua. Con bracciate da campione olimpionico cercai di avvicinarmi a lei il più veloce possibile. A pochi metri da lei andò a fondo e la vidi scomparire sott’acqua. Fu un attimo d’imbarazzo, ma ero cosciente che ero l’unico che poteva salvarla. Un’immersione rapida, giù trovai buio totale che impediva di vedere qualsiasi cosa, cercai di intravedere la sua sagoma. Fortuna vuole che la giovane indossava una maglietta di colore rosso, colore che mi permise di individuarla immediatamente. Appena vicino, l’aggrappai a me, cercando di recuperare immediatamente la superficie. Non c’era molto tempo sia per lei sia per me: ormai mancava l’ossigeno. Lei era già svenuta. Aveva ingerito molta acqua salata. Nella risalita gli aprivo la bocca e posizionando la mia sulla sua nel tentativo di dargli ossigeno: operazione indispensabile in questi casi. Raggiunta la superfice, venne in mio soccorso un collega che nel frattempo si era equipaggiato di tutto l’occorrente. Appena vicino, il collega gli applica l’ossigeno per farla riprendere. Ma il tentativo fu vano, sulla barca gli praticammo la respirazione e massaggi cardiaci per fare uscire l’acqua accumulata nei polmoni. La ragazza si riprese, ma aveva bisogno di essere accompagnata velocemente in ospedale. Radunammo i casi più disperati e caricati su un’imbarcazione furono trasportati sulla terra ferma. Restai lì a continuare l’operazione di salvataggio. Quando tutto fu ultimato ripartimmo anche noi per il porto. Durante il rientro, pensavo insistentemente a quella ragazza. Molto bella, poteva avere sì o no 18 anni, capelli neri, carnagione mulatta, con due occhi neri bellissimi. Mentre la tenevo in braccio mi faceva tanta tenerezza. Non era la prima volta che salvavo persone, ma mai in quel modo: quella ragazza l’avevo strappata alla morte, bastava poco e non c’è l’avrebbe fatta. Il suo corpo senza immerso nell’acqua, mi rimaneva appiccicato nella mente. Anche io avevo rischiato la vita per salvare lei. Bastavano altri pochi minuti immerso senza ossigeno, e anche per me poteva significare la fine. Ora che il tutto era passato, e la lucidità si era impadronita di nuovo di me, mi rendevo conto del rischio che avevo corso. L’istinto era stato più forte di me, non avevo pensato al rischio che correvo: l’unico pensiero era salvare quella ragazza. Attraccati al porto, fatti scendere i clandestini, mi rintanai nel mio posto letto. Feci una doccia per riscaldarmi, e poi mi distesi sul lettino. Ero stanco e privo di forze. Quel salvataggio aveva indebolito anche il mio il fisico. Un collega mi porta latte caldo e cornetto per farmi rifocillare. Tutti si erano resi conto di quello che avevo fatto. Infatti, Antonio, il mio collega e compagno di salvataggio, capii lo sforzo compiuto, e mi invitò a ritornarmene a casa. Rifiutai categoricamente: “È il mio lavoro salvare le persone, durante la notte altre persone possono avere bisogno di me, rimango fino alla fine del mio turno”, gli risposi. Un desiderio però lo avvertivo: andare in ospedale per sincerarmi delle condizioni della ragazza. Chiesi al capo turno di assentarmi per un’ora, in modo tale da poter raggiungere l’ospedale. Mi fu concesso. Presi la macchina e mi recai all’ospedale. Mi fu subito detto che la giovane di cui parlavo era in rianimazione, ma non era in pericolo di vita, era ventilata artificialmente perché aveva ingerito troppa acqua di mare. Gli stessi sanitari mi invitarono a ritornare il giorno dopo. Il mattino dopo, a fine turno, ripassai in ospedale. Mi fu concesso di vederla. Era ancora in rianimazione, potevo finalmente guardarla con la luce del giorno, ed era ancora più bella, il suo viso somigliava a quello di un angelo. Riposava. I medici mi rassicurarono che non c’era nessun rischio per la vita, anzi, nel primo pomeriggio l’avrebbero trasferita nel reparto e tolta dalla rianimazione. Quella notizia fu un sollievo, oltre a salvarla dalle acque, mi rallegravo che l’incubo era finito e forse aveva trovato la libertà tanto sperata e desiderata. Aprii gli occhi, e dal vetro mi osservava senza togliermi lo sguardo di dosso. Altrettanto facevo anch’io. Mi invitarono a lasciare la sala intensiva. Andai via. La sera, non avendo impegni impellenti, ritornai in ospedale, non era orario di visite, però mi fecero entrare. La trovai nel letto che guardavala TVche trasmetteva proprio il dramma che aveva vissuto. Mi avvicinai, gli chiesi come stava? Con un discreto italiano, mi rispose bene. Rimasi con lei quasi un’ora, un modo per tenerla compagnia, anche perché mi disse che non aveva nessuno ed era scappata dal suo paese per evitare umiliazioni a cui sono vittime le donne. Per lei raggiungere l’Italia significava liberarsi di incubi quotidiani. Il racconto mi sconvolse. Dava il senso dell’arroganza umana, che non riesce a trovare la strada giusta per regalare al mondo intero pace e democrazia. Di tutto ciò le donne sono le prime vittime, e la giovane ragazza che avevo davanti a me era l’esempio palese della sofferenza femminile nei paesi privi di democrazia. Il medico di guardia mi disse che la degenza durava una ventina di giorni, poi sarebbe stata trattata come una normale clandestina. Il senso era chiaro. Infatti dopo due giorni ritornai in ospedale, la trovai con lo sguardo fisso verso il soffitto e gli occhi lucidi di lacrime. Gli chiesi perché. La sua risposta fu amareggiante: devo ritornare da dove sono partita. Era la regola della legge, si, una legge che non guarda con interesse all’essere umano, che in qualche modo dovrebbe trovare il sistema di aiutare queste persone o a casa loro o nella nostra patria. Ecco, il dramma nel dramma. Fissandomi:
<< Ho speso tutto quello che avevo per cercare la libertà, se torno indietro non ho altra scelta che porre fine alla mia vita>>.
<< Non dire così>>, ribattei.
<< Come faccio, stamattina mi hanno detto che appena guarita sarò rimpatriata>>.
<< Dai, vedremo cosa si può fare, tranquilla>>.
Cercai d’impegnarmi in prima persona, ma trovai muri insuperabili dai vincoli di legge, purtroppo era la legge, e nessuno poteva trovare un escamotage. L’unico appiglio rimaneva un lavoro da trovargli subito, oppure il matrimonio. Alternavo le giornate tra il lavoro, le visite in ospedale e la ricerca affannosa di un lavoro. Mancavano pochi giorni dalle dimissioni, pertanto dovevo sbrigarmi, dovevo trovare una strada che consentisse alla ragazza di non buttare al vento i sacrifici e la speranza della libertà. Soprattutto aveva rischiato la vita, ed io insieme con lei. Non poteva tornare indietro dopo tutto quel trambusto. Sfortunatamente la strada di un lavoro non si apriva da nessuna parte. In quei venti giorni di degenza tra noi si era aperta una grande amicizia. Lei mostrava gratitudine per il mio impegno, e ogni volta mi ringraziava con estrema dolcezza. Era molto dolce. Quel suo modo di essere un agnellino sperduto in un paese straniero, la rendeva ancora più adorabile. Aveva appena 19 anni, era fuggita per non essere molestata e violentata dagli atteggiamenti prepotenti di un paese senza regole. Non era giusto che tornasse al punto di partenza, per ritornare a combattere un incubo infinito, no, doveva rimanere in Italia. Per me, in quei venti giorni, era diventata una persona singolare, forse qualcosa aveva toccato la mia sensibilità e il mio animo buono, e lei dimostrava di essere una ragazza bisognosa di attenzioni e amore. Mi recai dal Parrocco raccontandogli tutto. Anche don Michele rimase allibito, mi promise che avrebbe fatto il possibile per aiutarmi. Infatti una volta dimessa dall’ospedale, don Michele la ospitò nella canonica, riuscendo a strappare altri trenta giorni di permesso, quello che credevo io. Invece dopo trenta giorni mi confessò che in quei giorni aveva tenuto una clandestina nella canonica, perché il permesso non gli era mai stato concesso. Ancora oggi lo ringrazio per il coraggio dimostrato con la sua scelta di aiutarmi. La confessione scaturì dal fatto che ormai non era più possibile tenere la ragazza, si rischiava molto, bisognava consegnarla alle autorità di polizia. Erano trascorsi quasi due mesi da quel salvataggio in mare, tra noi si era radicato qualcosa di bello. Lei incominciava a sorridere, ed era il più bel sorriso che avevo mai visto. C’era qualcosa in lei che mi convinceva che in fondo si poteva provare, e quello che doveva mostrare un po’ di coraggio, ero io. Lo stesso coraggio che misi quella notte per andarla a prendere nelle profondità del mare. Don Michele mi consigliò di riconsegnarla alla polizia. Io, invece, la portai con me in un posto tranquillo. Mi aveva chiesto una pizza prima di partire. Con il cuore in mano l’accontentai. Per la prima volta riuscivo a comprendere la sofferenza umana. In lei riscontravo il malessere di una persona perseguitata dalla vita, sempre alla ricerca della libertà, e costantemente negata. Dopo la pizza c’incamminammo lungo la spiaggia. Lei, con tanta tristezza di chi vede sottrarsi la voglia di cambiare, mi disse:
<< Grazie per quello che hai fatto in questi due mesi. Ti porterò sempre nel mio cuore. Hai fatto tanto per salvarmi la vita, spero di rincontrarti di nuovo, sarai per sempre nei miei ricordi più belli>>.
<< Mi dispiace, ho fatto tutto il possibile, ma non ci sono riuscito>>.
La camminata s’interruppe. Ci voltammo l’uno di fronte all’altro fissandoci negli occhi. La luna illuminava il suo viso d’angelo rendendolo prezioso e meraviglioso. Grazie lo stesso, fu la sua risposta. I nostri occhi fissavano insistentemente i nostri sguardi. Le labbra si toccarono. Le avevo già assaggiate in fondo al mare, allora la baciavo per salvarla, ora erano cariche di passione, ma ugualmente serviva per salvarla di nuovo. Mancavano tre giorni alla sua partenza, in quella notte di luna piena, mentre baciavo quell’angelo meraviglioso, il mio cuore si aprì definitivamente: “Ti va di restare per sempre con me”, gli chiesi.
<<Sei un uomo meraviglioso, qualsiasi donna direbbe di sì, ma il mio sì può apparire un abuso e un modo per approfittare della tua nobiltà d’animo, pertanto è meglio che vado via>>.
<< No, tu devi dirmi di sì, il tuo bacio è stato meraviglioso, vuoi restare con me e continuare la tua vita insieme a me, costruendo un futuro insieme, fatto di solo amore e fedeltà>>.
<< Tu mi vuoi, o lo fai solo per pietà?>>
<< Non è pietà. C’è qualcosa di più forte. Solo al pensiero che tu possa andare via per sempre, il mondo mi crolla addosso, segno che non è pietà ma mi sono innamorato di te>>.
<< Idem anche per me>>, rispose.
Tutto ebbe inizio in quella notte tremenda, quando in quel mare in tempesta mi accingevo a salvare la donna della mia vita. La donna che mi ha reso uomo, ed io l’ho fatta diventare donna. Insieme abbiamo messo su una bella famiglia. Molte volte mi chiedo cosa fosse successo se l’avessi lasciata andare via, a quest’ora, di lei, avrei solo ricordi sbiaditi, ma non avrei vissuto la bellezza dell’amore nato nelle profondità del mare. Mi accingevo a salvare una clandestina che in fondo non era altro che una persona piena di amore e dolcezza che ha saputo riservare solamente a me. Io ho amato solo lei come sirena del mare che ogni notte aspetta l’alba in attesa che il suo salvatore ritorni ad abbracciarla come la prima volta. Non possono esserci pregiudizi sui migranti. Sono essere umani in cerca di libertà, democrazia, soprattutto tanto amore, ed io la mia immigrante l’ho prima salvata e poi amata.
P.S.: Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale. Ogni descrizione è solo frutto dell’immaginazione dell’autore