La favola del Risorgimento che ha distrutto il sud

REGGIO CALABRIA-Per anni a scuola abbiamo studiato la storia d’Italia, fieri dei nostri eroi, Garibaldi in primis, e soddisfatti delle strategie politiche adottate da Cavour per liberare il Sud dallo straniero. Poi alcuni dubbi hanno suggerito una ricerca della verità, un approfondimento di

La favola del Risorgimento che ha distrutto il sud

REGGIO CALABRIA-Per anni a scuola abbiamo studiato la storia d’Italia, fieri dei nostri eroi, Garibaldi in primis, e soddisfatti delle strategie politiche adottate da Cavour per liberare il Sud dallo straniero. Poi alcuni dubbi hanno suggerito una ricerca della verità, un approfondimento di quelle che fino a ieri erano le nostre convinzioni riportate nei libri didattici dalle attendibilità ufficiali.
Poiché la menzogna è la regina di tutte le epoche, dalle ricerche sono emerse numerose notizie, tutte documentate e ben datate. La storia ufficiale ha sempre determinato una indiscussa lettura dei fatti che portarono all’unificazione del Regno d’Italia. L’ufficialità afferma che il Sud fu liberato dalla tirannia dei Borboni che soffocava sempre più il popolo in una terra già povera e arretrata, depredata da Briganti, e fu civilizzata, poi, dai piemontesi, che aggregandola al Regno d’Italia diedero ai suoi abitanti una dignità di cittadini che non avevano mai avuto. Secondo questa “storia-verità”, quindi, portarono libertà e benessere, una vera fortuna per quelle misere popolazioni, peccato che sia TUTTO FALSO!
I Piemontesi avevano ben visto che il Regno delle due Sicilie era uno Stato molto ricco, dove il commercio era attivissimo e l’agricoltura fiorente. Quando nel 1734 il Regno passò a Carlo III di Borbone la popolazione era di 3.044.562 abitanti e nel 1856 arriva a 9.117.050. In poco più di 100 anni la popolazione si triplica. Da quando le popolazioni aumentano in un paese dove, a sentir “loro”, le condizioni erano di totale povertà, disoccupazione e alta mortalità?
Al contrario, invece, vi era un’ottima amministrazione e il debito pubblico era un quarto di quello del Piemonte, per questo alla Borsa di Parigi, la più grande del mondo, la rendita dello Stato Napoletano era quotato al 120 %, la più alta quotazione di tutti gli altri stati. Pensate che il primo tratto di ferrovia sul suolo italiano fu Napoli-Portici, assieme alla prima rete di gas e al primo telegrafo elettrico. Vi sembra arretratezza questa? Alla conferenza internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale. Nel regno c’erano 9000 medici, un medico ogni mille abitanti, un’assistenza sanitaria talmente attiva e presente da far rabbrividire qualche paese europeo di oggi. Anche l’economia calabrese conosce uno sviluppo notevole e sostenuto. In una relazione del Presidente della Società economica della Calabria Ultra Prima, una specie di Cassa del Mezzogiorno di quei tempi promossa da Ferdinando, si legge che nel 1846 l’attuale Provincia di Reggio Calabria contava 306.370 abitanti, e negli ultimi trent’anni «aveva veduto crescere prodigiosamente la sua popolazione di un terzo». La Società era sorta per modernizzare le tecniche di produzione della seta, dell’ulivo e delle essenze degli agrumi, in particolare del bergamotto. Nel 1835 furono introdotti modernissimi frantoi, infatti nel 1845 «il prodotto dell’olio è di 19.523 botti […] ed è poco meno che raddoppiato nell’ultimo decennio, poiché prima del 1835 il medio prodotto era di 10.623 botti» (Cfr. L. Grimaldi, Saggi statistici sull’industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra Seconda). Ma il primo posto nell’economia calabrese spetta ancora ai settori della seta e della metallurgia, quest’ultimo, convogliato nella zona delle Serre, dove a Mongiana, (1768), si integrava con quelli boschivi, infatti, nelle fonderie si adoperava solo carbone di legna, e del controllo e sfruttamento delle acque di fiumi e torrenti, che da un lato conteneva in qualche modo il drammatico fenomeno delle disastrose piene stagionali e dall’altro forniva energia idraulica ai macchinari. Se ne avvantaggiarono i due versanti delle Serre, lo ionico fino a Stilo, e il tirrenico fino a Pizzo dove si imbarcava per Napoli il prodotto finito. Pizzo era a quel tempo il più importante porto della Calabria dopo Reggio. La crisi del 1840 provocò la chiusura di molte ferriere del Regno, ma non di quella statale di Mongiana che anzi progredì ancora. Oltre all’armamento leggero per la fanteria, si costruivano cannoni terrestri, costieri e navali; e ancora argani, ruote dentate, macchine utensili e materiale vario di qualità e in quantità, che era anche esportato reggendo discretamente la concorrenza straniera. Le Reali ferriere della Mongiana sorgevano lungo il corso dei torrenti Allaro e Ninfo, erano dotate di due altoforni, di due grandi magli e di cinque raffinerie con tre fuochi ciascuna corredati dei relativi maglietti. Sotto Ferdinando II gli impianti furono concentrati in un unico grande edificio di forma molto allungata e furono, personalmente ispezionati dal Re durante la visita delle Calabrie, nel 1833. L’anno successivo, fra i pini secolari, sulle rive del torrente Stilaro, si iniziò la costruzione di una seconda ferriera, la Ferdinandea, con un altoforno d’avanguardia capace di produrre annualmente 24.000 cantaia di ferraccia e 8.000 di ferro malleabile, con il materiale estratto dalle vicine miniere di Pazzano. Lo stabilimento aveva una pianta simile a quello della Mongiana, ma era più grande. Nei pressi vi era la tenuta di caccia del Re. Egli aveva molto a cuore le «sue» ferriere. Di ingegno versatile e con la passione delle armi, si occupava di tutto: del personale che pretendeva professionalmente ineccepibile, della ricerca tecnologica, della più minuta amministrazione, della stessa condizione degli operai cui si garantiva un relativo benessere e da cui si esigeva la massima disciplina. Ciò nonostante, anzi proprio per questo, non vi era ombra di spirito sovversivo fra gli operai, i quali -ci informa il Padula- «dicono arditamente le loro ragioni ai loro superiori (…), non curano la moneta e, nella quindicina che son pagati, non badano che a spegnere qualche debito e far festa nelle cantine». I soprastanti «son tutti galantuomini e fanno il giornaliero rapporto scritto dei lavori eseguiti. Puniscono i pigri e gl’insubordinati, sottraendo loro la mercede per 1, 2 e 3 dì».
Le disastrose condizioni economiche del Piemonte erano ormai note, e il florido meridione era la soluzione ideale per riempire le casse da tempo deperite. Così in nome dell’Unità d’Italia i piemontesi si impadronirono del Regno delle due Sicilie, lo saccheggiarono, massacrarono parte della popolazione, mentre un’altra parte fuggì per la crudeltà degli invasori. Questa non fu per il Regno delle due Sicilie una guerra di liberazione, ma una meschina spoliazione che il Sud paga ancora oggi. L’amministrazione fu affidata a politici senza scrupoli e a dirigenti della pubblica sicurezza selezionati fra i peggiori farabutti. Il popolo meridionale identificava nello Stato l’usurpatore, l’invasore, l’estraneo; da qui l’assenza di senso civico e di rispetto per le istituzioni, e il cosiddetto “fenomeno del brigantaggio”, in realtà fu, agli inizi, un movimento di vera e propria resistenza contro liberatori rivelatisi ben presto degli oppressori. I così chiamati briganti erano contadini delusi dalla mancata assegnazione delle terre promesse, i giovani disubbidienti alla leva militare rigidissima regolata dal nuovo Stato, e tanta gente che non riusciva a sopravvivere a causa della disumana tassazione imposta sempre dal nuovo Stato “piemontese”. C’erano quelli rimasti fedeli ai Borbone, e c’erano certamente i briganti veri e propri, ma erano la minima parte. Il Nord-Italia è sempre stato considerato la parte ricca e produttiva del Paese, rispetto al Sud che è stato spesso considerato in mano alle mafie e all’assistenzialismo, ma il Nord non era più ricco del Sud al momento dell’unificazione, e all’assistenzialismo il Sud ne è stato condannato quando si decise che tutto lo sviluppo doveva concentrarsi al Settentrione. Ecco che il Sud fu trasformato a mercato di consumo dei prodotti del Nord, a deposito di manovalanza a poco prezzo per il sistema industriale del Nord, a container di voti per tenere saldo tutto questo.
Che delusione!
Che delusione “l’eroe dei due mondi”. Al momento dell’unità la mafia non era ancora mafia! Fu Garibaldi a chiederne l’aiuto in Sicilia e a liberare dal carcere i futuri camorristi a Napoli per reclutarli. Mi chiedo di chi sia la colpa se la mafia, la n’drangheta o la camorra dominano e controllano il territorio più dello Stato … Sarà l’eredità di tutto questo? L’Italia non sarà mai un Paese unito e prospero fino a quando non si comprenderà che è il Sud il vero motore della crescita! È indispensabile che un’amministrazione statale faciliti il meridione invece di ostacolarlo; è necessaria una lotta costante alla criminalità, e invece in parte del territorio italiano lo Stato è assente. Bisogna impiegare onestamente il denaro pubblico per creare sviluppo e non permettere a molti “politici” di dissiparlo per interessi personali…