Categories: Cronaca

Ad un passo dalla rassegnazione

Il solito sabato sera passato nel locale più prestigioso della città. Al mio fianco la preda trovata per caso durante la serata. Tra un po’ ci spetta un alba fatta di sfrenato piacere intimo senza nemmeno conoscerci. Sono l’uomo dell’alta società che non deve chiedere nulla, tutto a portata di mano. Passeggiamo come due fidanzati lungo il Tevere Flaminio. Da lontano si vede ponte Milvio, il ponte degli innamorati, ma noi non abbiamo niente d’innamorati. Lei molto bella, elegante, con un sorriso che cattura anche un cieco, insomma la donna che tutti vogliono portarsi a letto, o forse si portano a letto, ma questa sera tocca a me gustare questa prelibatezza umana. Ormai mi capita spesso da diversi anni. Due matrimoni alle spalle falliti, due figli con mogli diverse, soldi, tanti soldi. Mentre passeggiamo sul lungo Tevere mi fermo, guardo giù verso la scalinata che porta alle acque del fiume. Sotto scorgo, alle quattro del mattino, diverse persone che dormono coperte sotto rifugi di fortuna. Mentre sono attento a guardare come dormono quei signori, all’inizio della scalinata una donna sta scendendo. È vestita in modo orrendo. Un cappotto, fa molto freddo, che pende da tutte le parti. Capelli raccolti intorno al capo. In mano porta diverse buste che da lontano sembrano abbastanza sporche per contenere roba da usare. Scende le scale lentamente con fare stanco e martoriato. Osservo quella discesa senza dire un parola, quasi trattengo il respiro per non farmi sentire. La dama di compagnia continua a chiedermi di andare, il fuoco della carne gli bolle dentro, ma a me il fuoco si è spento. Non so perché, ma quella donna, quel modo di vivere, arresta il desiderio che avevo fino a pochi minuti desideroso di divorarmi questa donna bellissima. Gli chiedo di lasciarmi solo. Stupita, domanda perché. Non so dargli risposta, ripeto solo di lasciarmi solo. Si allontana, si mette in macchina e scompare dalla mia vista. Questa sera è successo qualcosa dentro di me, mi rendo conto che qualche cosa ha cambiato il mio essere. Scendo le scale per raggiungere la riva del Tevere. Mi posiziono dietro il pilastro del ponte. La donna prosegue con cammino lento. Avanzo per vedere dove va. Mi posiziono dietro un albero. Si ferma. Da dietro un cespuglio tira fuori un cartone. Lo distende a terra. Si posiziona sopra e con una coperta sporca si copre. Avevo sentito tante volte parlare di senza tetto, ma mai avevo assistito di persona a certi atteggiamenti. La povertà era veramente un debito che l’umanità ha con la vita.
Torno a casa desolato. Ma in me sorge un desiderio: “Perché non provare com’è si vive effettivamente da poveri. Vivere cosa si prova a non avere nulla e doversi arrangiare con quello che non hai”. Domande che ottengono immediatamente una risposta: “Provare per capire”. La domenica mattina mi alzo frastornato. Pianifico il piano per scomparire per un po’ dalle mie società finanziarie. Sparire dalla finanza che conta. Sparire dalla vista di chi detiene il potere in questo schifoso mondo e lucra sulla povera gente, insomma, fuggire da me stesso e dal mondo che mi possiede. Faccio un giro di telefonate. L’ultima è per il mio massimo collaboratore.
<<Sergio, domani parto, resto fuori per un paio di mesi. Non cercatemi, mi faccio vivo io>>.
<<Che cazzo ti è successo, come non dobbiamo cercarti, ma che dici>>, risponde Sergio.
<<Ti ho detto che non voglio essere cercato. Mi faccio sentire io>>.
<<Ma ti è successo qualcosa, spiegami>>.
<< Non mi è successo nulla. Ho bisogno di riflettere e riposare un po’>>.
<<Io che faccio?>>
<< Fai quello che faccio io. Mi sostituisci per tutto il tempo della mia assenza. Mi raccomando, non farmi trovare guai, chiaro>>.
<<Ok, se è quello che vuoi, fai tu>>.
<<Ok, da domani non ci sono per nessuno. Mi faccio vivo io a metà settimana>>.
È l’ultima telefonata. Da questo momento sono un uomo libero. Vado a vivere la mia esperienza. Vado nel garage e tiro fuori abiti che non metto più. Li stropiccio, li strofino nel prato fuori al giardino della villa, li trascino nel terreno. Solo quando sono diventati dei vestiti vecchi e sudici li indosso. La sensazione è terribile: io che faccio tre docce al giorno e mi cambio d’abito minimo quattro volte al giorno, adesso indosso vestiti sporchi. La sensazione che provo non mi scoraggia, vado avanti, voglio vivere quell’esperienza. Lascio carte di credito, bancomat, assegni, soldi liquidi, metto in tasca solo dieci euro, il resto diventa povertà. Chiudo casa e mi avvio per le strade di Roma. Per evitare di essere conosciuto, metto una parrucca e una barba finta in attesa che cresce la mia. Da questo momento sono un povero. La vita da povero mi mette imbarazzo. Scorgo per strade persone che mi guardano in modo schivo. Faccio una passeggiata da povero per le vetrine di via condotto. Che strano: in questa strada ho i miei migliori negozianti. Quando mi fermo davanti alla vetrina di Matteo, il mio negoziante di fiducia, lui esce: “Hei!!! Tu, smamma da qui, vai tra i tuoi simili, cosi conciato fai scappare i clienti”. Che cazzo dice questo, dimenticando che sono un altro. Caspita, cosi trattano la povera gente da queste parti. Faccio conoscenza con l’altra parte della società, o meglio, con l’altra parte di quella realtà a cui mi sono prestato. Entro in un bar per prendere un caffè, ma dimentico sempre la mia dimensione: “Fermati fuori alla porta, che vuoi?”, mi fa il barista. “Un caffè”, chiedo. “ non muoverti di lì te lo porto fuori”. Dopo pochi minuti arriva con un bicchiere monouso con dentro il caffè. Gli porgo il dieci euro, lo prende, mi porta il resto senza farmi mai entrare nel bar. E pensare che quel bar lo frequento tre volte al giorno, ed ogni accoglienza e fatta di rispetto massimo. Però adesso mi rendo conto che è solo perché ho soldi e lì mi accolgono con tante accortezze. Incomincio ad assaggiare l’amara realtà di chi è escluso dalla società. Dopo una giornata di girovagare, mi dirigo verso il lungo Tevere Flaminio, la mia nuova casa sarà lo stesso posto dove si è recata quella donna. Scendo le scale anch’io con la stessa lentezza di quella donna. La stanchezza prevale sulla mia forma fisica perfetta. Il buio si impadronisce della città. Mi posiziono affianco al posto dove quella donna si è messa a dormire. Attendo che arriva per farmi compagnia. Per la prima volta in vita mia provo la sensazione di solitudine. Solo verso le quattro del mattino, da lontano, scorgo la sagoma di quella donna. Quando arriva nelle mie prossimità: “Sei nuovo”, mi chiede. “Sì, sono nuovo”, rispondo. Non dice più niente. Fa la stessa identica cosa della sera prima, e si mette a dormire. Non avevo dormito per l’intera notte, non ero abituato. Al risveglio della città sento la schiena spezzarsi in due. Lei dorme ancora. Guardo le acque che scorrono davanti a me. Mai avrei immaginato di svegliarmi da povero sulle sponde del Tevere. Roma è una città meravigliosa, ma nasconde molte insidie. Verso le dieci del mattino la mia amica di viaggio si sveglia, mi guarda: “Che ne dici se proviamo a prendere un caffè”. “Magari”, borbotto. “Allora vieni con me, ho capito che sei all’inizio della povertà”. Ci avviciniamo ad un chiosco. Il proprietario sembra abituato ad offrire il caffè alla mia amica. Non era certamente la colazione che faccio abitualmente, ma va bene lo stesso. Provo a tirare fuori l’ultimo cinque euro rimasto, ma il proprietario del chiosco mi ferma: “Offre la casa”, mi risponde nel classico romanesco. Beh, non proprio tutti abbandonano queste povere creature al loro destino: l’umanità esiste ancora. Ne ho riprova dopo due giorni, quando ormai non avevo nemmeno un euro in tasca e iniziavo a vivere la povertà sul serio. Avevo elemosinato tutto il giorno, avevo racimolato soltanto un euro e cinquanta. Non avevo mangiato nulla tutto il giorno, la fame si faceva sentire, per me che non ero abituato diventato ancora più pesante. Entro in una salumeria a pochi passi dal ponte diventato la mia casa. Chiedo al salumiere un panino da un euro e cinquanta. Mi guarda, senza dire una parola, inizia a farmi il panino, anzi, prende del pane e incomincia a riempirlo di prosciutto, formaggio. Alche lo fermo: “Guardi ho solo un euro e cinquanta”. “Tranquillo, lo so che non hai soldi”, risponde. Mi consegna il pane e anche una bottiglietta d’acqua. Provo a dargli i miei spiccioli. “Vai, non preoccuparti, con quei soldi di prendi il caffè domani mattina. Se hai fame vini da me, qualcosa lo racimoliamo sempre, mica siamo tutti dei bastardi come certi ricconi del cazzo”. Mi risponde sempre con quel romanesco classico del romano incazzato nero. Il riccone del cazzo ero proprio io che adesso mi diverto a fare il povero. Ma questa povertà incomincia a farmi capire tante cose: quando non hai nulla, persone come il salumiere sono i tuoi angeli custodi. Comprendo il significato della vita. Capivo che dietro di me c’è tanta gente che aveva bisogno di me e della mia ricchezza. Quasi mi sento perso, eppure posso permettermi tutto. Arrivo sotto il ponte, apro il saccoccio con il pane imbottito di prosciutto e formaggio. Per la prima volta nella mia vita penso anche a chi mi è accanto. Taglio il pane a metà: una per me, una la conservo alla mia amica. Prima di quel momento mai avrei diviso qualcosa con qualcun’altro. Qualcosa modifica in me. In fondo mi sentivo meglio, più leggero. Mangio il pane e bevo la mia bottiglietta d’acqua conservandone metà alla mia amica. Appena finisco vedo avvicinarsi un altro poveraccio. Incominciamo a parlare. Lui mi chiede perché ero lì. Mi invento delle cavolate per non far scoprire la mia vera persona. Poi chiedo a lui perché è povero. “Un giorno mi sono scocciato di pagare solo tasse, correre dietro al lavoro che non c’era mai, così ho deciso di liberarmi della vita, della società, sello stato, ed eccomi qui a vivere da uomo primitivo, ma con la piena libertà di non dover essere vittima di una società che pensa solo a se stessa, dove tutti corrono dietro al dio denaro”. Si alza è va via. Resto solo a guardare le acque illuminate da una luna piena meravigliosa. Non avevo mai visto l’altra parte della mia Roma. Sempre chiuso in case di lusso e locali della Roma bene. Invece la vera Roma sta sotto questo ponte. Ammiro le luci della strada e le acque del Tevere che ondulano come se scrivessero qualcosa. Si sono fatte le due di notte. Vedo arrivare la mia amica. Si siede vicino a me. Fa freddo, molto freddo. Gli do l’altra parte di pane. Non dice niente, lo prende e lo divora in un attimo. Beve l’acqua, e senza dire una parola guarda anche lei le acque.
Sono trascorsi quindici giorni dalla mia avventura da povero. Sono quasi alla fine di quel percorso che mi ha condotto a scoprire la vita. A cinquant’anni sto percorrendo l’altra parte della società. Mi ha maturato, mi ha dato il modo per capire cos’è la parte bassa della società ed emarginata della società. Una sera la mia amica torna prima del solito. Avevo mangiato un cornetto offerto dal chiosco. Mi aveva dato due cornetti avanzati. Uno l’avevo mangiato, l’altro lo porgo alla mia amica. Lo mangia come sempre in un botto. Poi guarda le acque. Ma quella sera avevo voglia di scoprire chi fosse la mia amica. “Quanti anni hai, e come ti chiami”, gli chiesi. “Ho 32 anni, ma sembro una donna di cinquanta”, risponde. Apre la borsa e tira fuori una foto e me la passa. La guardo. Rimango folgorato. Dalla foto ammiro la bellezza di una donna meravigliosamente bella. La guardo: non era lei, non è possibile che la povertà possa trasformarti in quel modo. Quasi temo possa succedere anche a me. Sono fulminato dalla bellezza della foto, ma sono sconcertato dalla sofferenza di adesso. Sento brividi percorrere tutto il mio corpo. “Perché sei qui, perché hai distrutto questa persona, perché, perché”, chiedo. Lei senza nemmeno guardarmi in faccia: “Vuoi ascoltare la mia storia”. “Sì”, rispondo.
Cerco di rincuorarla:
<<Dai vedrai che prima che finisce la settimana, qualcosa viene fuori>>.
<< Non credo più a nulla. I principi azzurri non esistono, anzi, uno è esistito, ma adesso è un angelo nel cielo>>.
<<Come ti chiami?>>
<<Isabella>>.
Cerco di capire tutto della sua identità. Mi dice nome, cognome, data di nascita, il tribunale dove si tiene l’udienza, insomma, tutto quello che mi serve. Mi alzo e mi dirigo sulla strada. Lei resta sotto al ponte. Appena su, dopo quindici giorni, riaccendo il telefonino. C’erano tantissimi messaggi, me ne frego.
Chiamo il mio avvocato:
<<Pronto>>, la risposta
<< Sono Sergio>>.
<<Ma che cristo stai facendo, che fine hai fatto, ma dove sei>>, l’avvocato mi fa tante domande.
<<Smettila di chiedermi le cose. Segnati questi appunti, e domani vai in tribunale e blocca tutto. Quei bambini devono tornare dalla madre. Ci vediamo domani pomeriggio nel tuo studio. Ripeto, quei bambini devono tornare dalla madre, chiaro>>.
Senza dire una parola chiudo il telefono. Torno da Isabella, che nel frattempo si è addormentata. Io non riesco a prendere sonno, penso continuamente a quello che mi ha raccontato. Avevo udito la storia di chi credeva nella vita, ma poi è stata distrutta da una società ipocrita e senza scrupoli. Non ero più io. Esco da questa avventura completamente cambiato. Sono bastati quindici giorni per modificare tutta la mia esistenza. La notte passa insonne. Al mattino mi alzo presto e vado via senza svegliare Isabella. Mi reco fuori ai miei uffici. Ecco, arriva mia figlia. Mi avvicino: “Ciao Piccola”. Lei mi guarda: “Vai via o chiamo la polizia, stì barboni rompono proprio”. La guardo fissa negli occhi: “Da oggi abbi rispetto per chi non ha nulla, altrimenti ti faccio diventare a te una barbona. Non ammetto più ipocrisie, strafottenze, chiaro”. Mia figlia mi guarda, ed incredula mi chiede chi sei? “Sono tuo padre”. Quasi sviene. Mi accompagna a casa. Gli racconto tutto. Commuovo anche lei, comprende che la vita è qualcosa di più di quello che si ha. Mi rimetto in ordine. Dopo pranzo vado dall’avvocato.
<<Sergio, la situazione non è facile. Ho parlato con l’avvocato della famiglia alla quale devono andare i bambini, mi ha spiegato che la donna non ha nulla e non può mantenere i bambini>>.
<<La donna ha tutto>>.
<<Ma che dici, qui ci sono gli atti>>.
<<Ti ho detto che ha tutto: una casa, soldi, un lavoro. Chiedi un’udienza al giudice e chiedi che si riapra il caso. Non solo, denuncia l’assistente sociale, denuncia il comune, denuncia lo stato, denuncia tutti, queste porcherie devono finire>>.
<<Ma che cazzo dici. Che ti prende>>.
<<Fai come ti dico, denuncia tutti, sono io che pago. Ma per prima cosa metti a posto la questione dei bambini, il resto viene dopo. Domani mattina avrai i documenti della casa, del lavoro e del conto corrente bancario>>.
Vado via lasciando in mano all’avvocato non poco lavoro: per una volta lavora sul serio. Ho preso già un appuntamento con la banca.
<<Caro fottuto direttore, oggi sono incazzato nero. Mi trovi la pratica di questa casa, me la tiri fuori, subito>>.
<<Dottore, non capisco>>.
<<Le ho detto che questa casa ha una pratica aperta per pignoramento, tiri fuori la pratica e mi faccia capire>>.
Dopo un po’ il direttore arriva con un faldone in mano.
<<Ecco la pratica. È stata acquistata all’asta da un signore, però deve ancora liquidare la quota pattuita>>.
<< Questa casa non va a nessuno. Preleva dal mio conto tutto quello che occorre per mettere a posto tutto, con mutuo estinto>>.
<<Non è possibile, è stata già assegnata all’asta dal giudice>>.
<< Per domani mattina alle dieci questa casa deve tornare alla legittima proprietaria. Se ciò non avverrà, alle dieci e un minuto con questa banca il mio gruppo non avrà più nessun rapporto>>.
Lascio il direttore imbambolato e vado via, sicuro che alle dieci del mattino dopo la casa era di nuovo di Isabella. Avevo fatto tutto quello che dovevo fare: casa, lavoro, soldi, ad Isabella adesso non manca più nulla per riprendersi. Cala la notte. Una volta a letto non riesco a prendere sonno. Penso insistentemente a lei, sì, lei, quella donna che scendendo le scale mi ha il coraggio di incrociarmi con la povertà capendone il significato. Sono le due, adesso stà tornado sotto al ponte per trascorrere un’altra notte immersa nella speranza che il giorni porti una soluzione alla sua esistenza. Domani quella speranza si concretizza. Isabella ho imparato a volerle bene guardandola negli occhi. Guardandola mentre divorava il panino che la sera gli lasciavo. Qualche volta non l’ho mangiato io per conservarlo a lei. Ho fatto anche questo per Isabella. La immagino mentre il buoi della stanza mi avvolge i pensieri. Delle lacrime scendono dal mio volto: è la prima volta che succede.
La mattina alle cinque sono già sveglio. La finta povertà mi ha regalato la voglia di alzarmi presto. Alle nove e quarantacinque sono nell’ufficio dell’avvocato con tutte le carte pronte. Gliele consegno. “Bene, a questo punto le cose cambiano. Stamattina stesso chiediamo la revoca del provvedimento”. Dice l’avvocato. “È quello che voglio”, dico. “Tranquillo. Ora dovrebbe essere tutto a posto. Ora mando un collaboratore in tribunale dove l’attende il giudice”. “Il dovrebbe mi preoccupa. Questa mattina in tribunale andiamo insieme. Quindi alza il culo da quella sedia è adiamo”, replico. “ Ma che dici, non vado in tribunale da anni, fanno tutto i ragazzi. Dai non ti preoccupare”, dice l’avvocato. “Non ci siamo capiti, ti aspetto giù, fai presto a scendere. Questa è la causa più importante della mia vita, e tu non puoi mancare”, commento. “Ma chi è questa donna? Perché tutto questo interesse? Comunque vengo ad una condizione: dopo mi offri il pranzo”. “Ok, ti porto a mangiare in un posto che ti rimarrà per tutta la vita”.
Una volta in tribunale ad attendere c’è il giudice e l’avvocato della famiglia. Poi c’è anche una donna. Espletiamo il tutto. Il giudice rimane impietrito, poi conoscendo il mio avvocato, il migliore di Roma, non può fare altro che accettare di rivedere il provvedimento e chiudere la faccenda il giovedì prossimo. Mi avvicino all’altra donna che è presente alla lettura dei documenti:
<<Chi sei?>>
<<Sono una amica di Isabella, lei non è più potuta venire in tribunale. Ho fatto quello che potevo per assistere al suo funerale: i figli per lei sono tutto. Stamattina non ci ho capito più nulla, eravamo ad un passo dalla fine, invece mi ritrovo la presenza di un grande avvocato e per giunta tutto cambiato. Tu chi sei?>>
<<Un amico di Isabella. È una donna speciale, merita tanto ancora dalla vita>>.
<<Se puoi, cerca di farla felice, lo merita>>.
La donna va via scomparendo nei grandi corridoi del tribunale. Penso e ripenso alle sue ultime parole: “Falla felice, lo merita”. L’avvocato mi raggiunge. “Andiamo, adesso ti tocca pagarmi il pranzo, e sono curioso del posto dove vuoi portarmi”.
Andiamo via dal tribunale e ci avviamo verso il lungo Tevere. All’altezza del ponte che per quindici giorni mi ha ospitato, fermo la macchina. Scendiamo. Mi dirigo verso la salumeria che per tutto il tempo mi ha donato la merenda serale. Entriamo. “Due colazioni belle, come quelle che fa ai senza tetto”. Chiedo al salumiere. Il salumiere mi guarda stupito: come faccio a sapere che la sera fa le colazioni gratis ai senza tetto. Pago quindici euro. Una volta fuori mi dirigo verso la scalinata che porta sotto al Tevere. L’avvocato mi guarda esterrefatto: “Ma scusa, dovevi portarmi a pranzo in un posto che non avrei dimenticato più, invece andiamo qua giù, qui non ci sono ristoranti”. “Seguimi”, invito. Una volta nel posto che fino a due sera fa era mio, mi siedo, e invito l’avvocato a fare altrettanto. Scartoccio le merende, una la passo all’avvocato e l’altro incomincio a mangiarla. Mentre mastico i bocconi racconto al mio amico avvocato cosa ho fatto. Alla fine Sergio: “Hai avuto un grande coraggio. Forse oggi cambia qualcosa anche nella mia vita. Hai ragione, non dimenticherò facilmente questa merenda mangiata in questo posto. Sto respirando l’aria della vita semplice, genuina, naturale. Quasi ti invidio per quello che hai fatto. Però oggi hai fatto una cosa meravigliosa ridonando la vita a chi soffre. Ti prometto che da oggi anch’io mi dedico di più alle persone sofferenti. Qualsiasi cosa tu hai intenzione di fare, io sarò al tuo fianco. Oggi ho capito che la vita ha bisogno di persone come noi che hanno e possono dare. Adesso andiamo”. “No, io resto qui, devo aspettare Isabella, devo dirgli che l’incubo è finito”. “Ok, allora io vado, prendo un taxi”.
Resto da solo ad aspettare Isabella. Passano diverse ore prima di vederla spuntare. Avevo vissuto quindici giorni insieme a lei, però adesso mi tremano le gambe. Si avvicina, era allegra, evidentemente aveva parlato con l’amica. Appena si avvicina:
<<Ciao isabella>>
<<ma, ma, tu sei…>>
<<sì, sono io>>
<<Perché, sei vestito da ricco>>.
<<Quando ti ho visto scendere le scale la prima volta ho voluto capire cosa spingesse una donna a vivere in assoluta povertà. L’ho fatto per capire cose che non avrei mai capito senza viverle. Questo luogo ma, soprattutto tu, avete cambiato la mia esistenza>>.
<<Una mia amica mi ha detto che i mie figli ritornano da me. Stamattina in tribunale è successo qualcosa che non so spiegarti, ma è successa>>.
<<Lo so>>.
<<Come lo sai?>>
<<Sono io che ho messo tutto a posto. Adesso hai di nuovo tutto. Giovedì ti ridaranno i tuoi figli. Ritornerai a casa tua, nella tua casa, quella che hai comprato con tuo marito. Potrai ricominciare, puoi riaprire il negozio se vuoi, i soldi non ti mancano. Tieni, questo è il tuo conto corrente. A deposito ci sono un bel po’ di euro. Sono ricco, non sono povero, ho voluto provare ed ho trovato te che avevi bisogno di me, ed ho fatto la cosa giusta da fare. Adesso andiamo via da qui. I tuoi figli non possono ritrovare la sua mamma in queste condizioni>>.
Isabella mi segue. Saliamo le scale del ponte in silenzio. Una volta in macchina isabella continua a non dire nulla. Arrivati alla villa, il cancello si apre lentamente, mentre aspettiamo: “Sembro la principessa liberata dal suo principe azzurro dopo la schiavitù. Mio marito non mi ha abbandonata, ha fatto tutto lui da lassù”, sussurra. “Spero che tu possa incontrare il tuo principe azzurro per continuare il cammino della vita. Sei giovane, devi andare avanti”. “Hai ragione, ma senza di te tutto ciò non sarebbe successo. Quindi lui ti ha guidato fino a me. Dio esiste davvero”.
Entriamo in casa. Dopo un po’ arriva un esercito di gente: estetista, parrucchiere, insomma, avevo organizzato tutto per riportarla alla sua normalità. Dopo due ore di lavoro Isabella si ripresenta a me. La guardo fissa negli occhi. Dai suoi occhi vedo scendere due lacrime che sanno tanto di gioia. È troppo bella. Io invece avevo conosciuto l’altra isabella, quella povera e in cerca di speranza. Viene verso di me. Mi stringe forte a se. Quell’abbraccio scatena in me una grande emozione. Sentire il corpo di Isabella stretto a me, rilascia brividi lungo la schiena. Si scosta: “Grazie, grazie”.
Trascorrono i giorni. Isabella riconquista piano piano la normalità. Aspetta con ansia il giovedì, quando potrà riabbracciare le sue creature. Io gli do coraggio, e le tengo compagnia in questo percorso nuovo. Arriva il giovedì. Alle undici del mattino bussano al cancello: è l’avvocato con i bambini. Isabella scoppia in lacrime, è un momento atteso e sognato tante volte. Quando spuntano sull’uscio della porta d’ingresso, Isabella rimane immobile, li guarda, poi i due corrono dalla mamma e la stringono forte forte. Non potevo non emozionarmi, devo allontanarmi per consentire loro di stare soli e godermi, isolandomi, l’emozione che mi ha provocato quel momento. Dopo mezz’ora torno da loro. Isabella mi viene vicino: “Hai visto come sono belli. Non mi sembra vero”. “Sono belli come te. I sogni a volte si avverano. Da oggi puoi ricominciare”. Pranziamo, resta anche l’avvocato. Tra risate e passaggi a ricordare il passato, passiamo ore spensierati tutti insieme. L’avvocato quando sta per andare via: “Isabella non è come le donne che abbiamo sposato. Se fossi in te non me la lascerei sfuggire. Lei ha bisogno di te, tu hai bisogno di lei. Pensaci”. Forse l’avvocato non ha tutti i torti. In fondo qualcosa in me è successo, non ora, ma quando lei era una povera creatura. Se è successo qualcosa certamente non dipende dalla sua bellezza, ma dipende esclusivamente da quello che era quindici giorni fa, quando lentamente scendeva le scale. A sera tardi lei mette i bambini a letto. Poi viene vicino a me: “Ho letto sui documenti che ho anche un lavoro, e sarei la tua segretaria personale, ma io non ne sono capace”. “Tranquilla, è servito per avere tutta la documentazione a posto e riavere i bambini. Il resto verrà dopo”. “Cosa. io proprio non so”. “Domani capirai, adesso andiamo a letto, i bambini questa notte vogliono trascorrere di nuovo la notte con la loro mamma”, la tranquillizzo. “Ok, buona notte, e grazie di tutto”.
Il mattino dopo accompagniamo i bambini a scuola. Dopodiché ci dirigiamo verso la periferia di Roma. Arriviamo in un paese di poche anime. Entriamo in una strada sterrata. Isabella non dice nulla. Arriviamo in una grande distesa di terra. fermo la macchina e scendo. Isabella mi segue, scende anche lei. “Non capisco, perché siamo arrivati fin qui?”, chiede. “Quelli che vedi sono miei terreni. Qui voglio che sorga la città del povero, e tu sarai la direttrice. Che ne dici?”. Isabella a stento trattiene la commozione: “Perché tutto questo?”. “Perché voglio che altre persone com’è successo a te, possano avere qualcosa per poter ripartire. Non voglio fermarmi al semplice fatto di aver aiutato te, voglio andare oltre. Se tu accetti, fra un mese iniziamo i lavori”. “Acetto. Non posso dire di no, ho sofferto tanto, quindi non posso tirarmi indietro dinanzi ad una offerta indirizzata a persone che ne hanno bisogno”.
Andiamo via. La sera ci ritroviamo a casa con i bambini. Nel frattempo ho già dato l’incarico all’ingegnere di sviluppare il progetto secondo i miei desideri. Quindi è già partito spedito verso la realizzazione della città del povero. Fino ad un mese fa non ci avrei nemmeno pensato. Isabella ha trasformato tutto il mio essere. La sera ci sediamo sul divano. Incominciamo a parlare. Mentre lei parla ammiro le sue parole. La guardo fissa. È troppo bella per non desiderarla. Lei si accorge di qualcosa: “Non ho più fatto l’amore con nessuno dopo la morte di mio marito. Sono rimasta fedele ad un amore unico, ma ricominciare fa parte della vita dopo le cattiverie. Sai, non voglio pietà. Voglio amore. Se un giorno dovesse succedere di incontrare un’altra persona, deve solo amarmi ed io amerò tanto. So solo amare, il resto non mi appartiene”. Continuo a guardarla fissa. Forse anche lei avverte qualcosa come lo avverto io. Non ha il coraggio di farlo uscire, o forse ha paura di tradire un sentimento che non c’è più. Mi vengono in mente le parole dell’avvocato: “Lei ha bisogno di te, e tu hai bisogno di lei”. Mi avvicino di più a lei. La guardo fisso negli occhi. Lei fa altrettanto. Le nostre labbra si avvicinano lentamente. Un bacio lungo e appassionato incide nei nostri cuori la parola amore. Quello che offre la serata pochi minuti dopo è un turbine di passione misto a un sentimento vero e puro nato tra le acque del Tevere. I corpi non hanno il tempo di liberarsi degli indumenti che già sono un’unica cosa. Non dobbiamo dirci più niente, forse ha ragione lei, suo marito ha guidato me verso di lei, affinché possa renderla felice come merita.
È trascorso un anno. Oggi si inaugura la città del povero. Siamo nel salone grande. Alla mia destra ci sono i miei figli, alla mia sinistra i bambini di Isabella. Davanti a me il sindaco. Dietro tanta gente comune, povera, ospiti della città del povero, invitati ad assistere al matrimoni tra me e la donna più bella e meravigliosa di questo mondo, Isabella. Con lei ho condiviso tante cose e con lei ho riscoperto la vita, quella vera, fatta di solo amore personale e intimo ma, soprattutto, indirizzato a chi ne ha veramente bisogno.
I fatti narrati nel racconto sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autore, ogni riferimento a cose e persone è puramente casuale

Redazione

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