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Chi è il bullo, chi è la vittima: due facce della stessa medaglia

NAPOLI-I recentissimi fatti di cronaca, come quello del bambino di Mugnano, vessato da tre ragazzi, indicano che il bullismo, con tutti i suoi derivati come il cyberbullismo nel mondo virtuale, sta diventando un fenomeno ed un’emergenza di grande impatto sociale.
Ormai è diventato un tema sempre più inflazionato: media, giornali, social network informano e sensibilizzano come possono, diffondendo articoli, video, post dal forte impatto viscerale.
Siamo di fronte a bambini, ragazzi, adolescenti insultati, denigrati, vessati, oggetto di derisione anche virtuale e nei casi più gravi, che subiscono non solo ferite emotive, ma anche fisiche e a volte mortali.
Siamo di fronte a comportamenti aggressivi, violenti che riproducono dinamiche di branco, dove il più “forte” sottomette il più “debole” e gli altri, molto stesso, rimangono a guardare divenendone complici.
Se si guarda il bullo come un giovane diseducato si può ancora pensare di fare qualcosa, se invece lo si etichetta con frasi del tipo “è carattere”, “è la sua natura” si arginerà solo il problema. Se dall’altro lato, invece, si pensa alla vittima come “debole” di natura, in completa balìa dell’altro, si fa ulteriormente danno. Affossando la sua già precaria autostima, bollandola di inettitudine e togliendole quel potere personale fondamentale per incidere positivamente sulla propria vita.
Contrastare tale fenomeno è una scelta di sistema, in cui è fondamentale l’alleanza di diversi settori educativi: dalla famiglia, primo ambiente di apprendimento, alla scuola, per giungere al sistema dei pari, prendendo in considerazione fattori intrapsichici, interpersonali, culturali e socio-economici. Si tratta, infatti, di una ri-educazione, ossia di attivare una serie di azioni volte a nuovi processi di apprendimento, in primis di carattere relazionale ed emotivo: infatti, in questi casi, si attiva un meccanismo del tipo “sento e quindi re-agisco” a scapito di un’azione adulta più differita che si concretizza in un “sento, penso e agisco”, incidendo così sulla realtà senza volerla a tutti costi possedere.
È un processo alquanto complicato, che presuppone un complesso lavoro di “educazione emotiva”. Quest’ultima permette di giungere alla comprensione dell’altro, al di là della semplice tolleranza, in un atteggiamento di simpatia (dal greco sympatheia, “provare emozioni con…”) e di empatia (dal greco “empatheia , compartecipazione emotiva), aprendosi e accettando l’altro nella sua diversità e particolarità.
Di Letizia Servillo

Redazione

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