Categories: Cronaca

Dai documenti desecretati si legge che il 7 marzo il Cts non voleva un lockdwon generale

Il governo si era inizialmente rifiutato di rendere pubblici gli atti. Il 22 luglio scorso, poi, il Tar aveva accolto il ricorso presentato contro questo diniego. Ma l’esecutivo aveva fatto a sua volta ricorso e il 31 luglio il Consiglio di Stato sospendeva l’effetto della sentenza del Tar del Lazio. In sostanza, quello sugli atti del Cts è stato un braccio di ferro andato avanti per mesi e su cui anche l’opposizione aveva dato battaglia. L’evoluzione recente del destino di questi documenti è presto detta. Ieri sera alle 21.15 sono stati trasmessi tramite pec dal capo della protezione civile, Angelo Borrelli, agli avvocati Enzo Palumbo, Andrea Pruiti Ciarello e Rocco Mauro Todero. Il governo ha fatto un passo indietro, decidendo di rivedere la propria posizione e anticipando il prevedibile esito dell’udienza fissata per il 10 settembre davanti al Consiglio di Stato. Termina così una lunga battaglia sostenuta da molti parlamentari e da gran parte dell’opinione pubblica italiana. Sono alcuni dei verbali quelli prodotti dal Comitato tecnico scientifico per l’emergenza del Coronavirus e sono alla base delle decisioni prese dall’Esecutivo con i Dpcm.
Gli atti sono stati resi pubblici dalla Fondazione Einaudi, ed emerge dalla lettura delle oltre 200 pagine, che il 7 marzo scorso con un documento riservato inviato al ministro della Salute, Roberto Speranza, il Cts proponeva al governo di “adottare due livelli di misure di contenimento”. Non un lockdwon generale che blindasse l’Italia intera, ma azioni di contenimento differenziate: una riguardante i territori in cui si osservava una maggiore diffusione del virus, l’altra riguardante il resto del territorio nazionale.
Il comitato spingeva, quindi, per azioni più rigorose in Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti. Due giorni dopo, però, il presidente del Consiglio con il Dpcm del 9 marzo dava il via alla serrata estendendo le stesse misure a tutto il Paese. Senza distinzioni. E senza giustificazioni apparenti.
Sin dall’inizio dell’epidemia dalle colonne di questo giornale avevamo ripetutamente esortato a chiudere le regioni più a rischio, a partire dalla Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. Non eravamo il comitato tecnico scientifico, ma ragionevolezza ci spingeva a chiedere con forza di adottare misure simili a quelle adottate a Wuhan circoscrivendo le quarantene lì dove era più necessario. Oggi leggendo i documenti ci siamo resi conti che non ci sbagliavamo, e anche il comitato tecnico scientifico voluto da Conte, aveva le stesse idee su come affrontare l’epidemia.

Redazione

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