Inverno 1901. Napoli. Il tenore partenopeo, Enrico Caruso, reduce dal successo della rappresentazione scaligera de “La Bohème”, opera lirica del compositore Giacomo Puccini, è in città per portare in scena, sul palcoscenico del Teatro San Carlo, “L’elisir d’amore“,divertissement in musica di Gaetano Donizetti. Verso mezzogiorno, uscito in tutta fretta dalla hall del lussuoso albergo in cui alloggia, sale a bordo di una carrozza che lo attende sul lato opposto della strada. Ancora rinserrato nel cappotto grigio a larghe falde, con il volto nascosto tra l’estremità del bavero, per non farsi riconoscere, esorta l’autista della vettura a traino, l’attempato Salvatore Cicilluzzo, a mettersi in marcia: “Jamme ,Cincilluzzo, facimmo ambressa!” ,domandando, “Nè Cincillù, ma ti avesse visto qualcuno?”. “Nossignore, maestro!; Cincilluzzo vostro ha fatto ogni cosa con prudenza e co ‘a capa ‘ncapa”, risponde il vetturino. “Ohé, Cincillù, e che d’è questo “Maestro”?”, l’ammonisce l’affermato cantante lirico, “E tu mi hai visto ‘a piccirillo e mo’ mi vuoi dare del voi?…lassa sta ‘a maestranza e chiammeme “Carusiello”, comme quanno me purtave ‘a gratis a fatica’ ‘a bottega!. Piuttosto…’nfila ‘e rote a ‘e cavalle che debbo arrivare quanto prima a San Martino , ‘ncoppa ‘o Vomero!”. “Uh, Gesù!, a San Martino?…e che tiene a fa là ‘ncoppa, Carusiè?”, domanda, incuriosito, Cincilluzzo; “Na cosa d’a mia , tu ,nun te preoccupa’!…vola, vola sultanto!”, replica Caruso. Rapide, si susseguono dinanzi agli occhi del tenore le immagini di vie e piazze, di palazzi e negozi, di interi quartieri popolari divorati, consumati, insieme con i loro abitanti, dal bacillo del colera. “Cincillù, lo sai?, j nun ce credevo quanno ‘a gente che steve ‘e casa a chesti pparte me raccuntava ‘e certi scene e le ridevo ‘nfaccia ,come se mi stessero dicendo fanfullate!. Solo mo’, mo’ ch’è vedo cu ‘st’uocchie, ‘a voglia e ridere m’è passata!”. Poi, attraversato al trotto il Vomero, raggiunge San Martino. “Fermati, Cincillù, siamo arrivati!”, comanda perentorio il cantante lirico. “Siente, siente c’addore ‘e rose e gelsomine!, è inverno chieno, ma ca pare primmavera!. E ‘o Vesuvio?…comme fumma, guarda ‘o pennacchio, pare ‘nu mustacchio da uomo!. E ‘o Castiello ‘e Sant’Elmo e ‘a Certosa?…comme so’ ‘nmponenti, pare quasi ca te dicano: “Noi stamma ca ‘a secoli e tu?, che vuò, perché ce si venuto?.” E ‘o panorama?…ca, chiunque se crede nu Re, ‘nu Dio, perché tiene ai piedi la città!. E che silenzio!…’o silenzio, Cincillù, o siente pure tu?…ca ,nun ce sta nisciuno, ca ,nisciuno o cerca “il maestro Enrico Caruso”, ca ce stamme sulamente io, “Carusiello”, e tico, Cincilluzzo, ‘o vetturino!”. Sceso dalla carrozza,percorsi alcuni metri, Caruso,si avvicina al belvedere; con le mani appoggiate sul parapetto di un muro , assorto,cerca con lo sguardo il Teatro San Carlo. Intercettatane la sagoma, felice e tronfio, come un bambino che abbia risolto un inestricabile indovinello , sorride. Poco distante, da dietro il fusto di un alto pino mediterreo, si sporge un giovane netturbino, che, riconosciutolo, gli si fa incontro: “Maestro, uh, mamma mia!, ma siete proprio voi?”, esclama trasognato, “Maestro Caruso…io mi chiamo Raffele Crisciuolo e sono onorato di fare la vostra conoscenza!. Uh,mamma mia! e mo’ che torno ‘a casa e lo dico a mia moglie e ai bambini, sapete io tengo cinque figli, ca v’aggio incontrato e…là succede Piedigrotta!. Maestro, permettete l’ardimento?…Io sono uno scocciatore, voi ve ne stavate solo solo qua, ma capitemi?, io non posso perdere l’occasione!. Maestro, io sono un vostro ammiratore da quando, quest’estate, a Livorno , ospite di una mia zia denarosa, vi ascoltai cantare l’aria: “Vesti la giubba” dai “Pagliacci” di Leoncavallo. Perciò, siccome in quel frangente la vostra voce mi ha tanto rincuorato per certi problemi di salute che avevo e, giacché stasera non potrò venire a sentirvi , perché non tengo i denari sufficienti per pagare il biglietto, fatemi una gentilezza: voi siete buono e non potrete dirmi di no!. Regalatemi un oggetto vostro, cosicché io possa ricordarmi per sempre di voi…che so io, ‘nu fazzuletto?”; “Raffae’!, ti regalo una cosa ancor più preziosa!”, esclama Caruso, estraendo dalla tasca del soprabito una fotografia, “Questa, la porto sempre con me, da quando è nato mio figlio Rodolfo!; mi feci immortalare vicino alla sua culla che aveva pochi giorni. Tienila bene, eh?, mi raccomando! e stasera , se accetti, tu e la tua famiglia sarete miei ospiti a teatro”. “Grazie, maestro, grazie…voi siete un santo!…, che Dio ve lo renda!”, grida,mentre si allontana , esultante, il netturbino. “Carusiè, ma tu si asciuto pazzo?”, rimbrotta con aria severa Cicilluzzo, raggiunto il tenore al belvedere, “No, Cincillù!; io nun me so’scurdato ca ero comma ‘a loro!”, ribatte lapidario, il cantante lirico. D’un tratto,il rumore fragoroso degli zoccoli ferrati dei cavalli che stridono a contatto con il selciato, annuncia l’irruzione di una carrozza dalla quale, fermatasi, fuoriesce una donna, la soprano Ada Botti Giachetti, compagna del tenore. “Enrico, eccoti finalmente!, ma cosa ci fai qui?…al San Carlo ti attendono il direttore d’orchestra, per definire i dettagli dell’esecuzione e le sarte , per l’ultima prova del costumi!. Si può sapere cosa ti passa per la mente?. Ne Cincillù, avevi detto che non lo sapeva nessuno,eh?”, bofonchia il cantante lirico, rivolgendosi all’autista. “Non rimproverare Salvatore, ch’è tanto un brav’uomo!…l’ho capito da me ch’eri qui. Sbarcati a Napoli, mi raccontasti di quando, appena adolescente, trovasti lavoro come operaio metallurgico presso le officine di Salvatore De Luca e della fontana che costruisti per la sua ditta, a San Martino, ricordi?”. “Sì!”, conferma Caruso, “E’ vero, sono venuto per la fontana. Volevo rivederla ora…ora che , per la stampa e per la gente , sono: “Enrico Caruso, il più grande tenore di tutti i tempi!”, volevo toccarla, toccare le tracce della mia fatica, del mio sudore, per convincermi che, se il trionfo e le ovazioni, un giorno, dovessero finire, io sarei, ad ogni modo, capace di realizzare qualcosa di buono!. Tu, Ada, non sai cosa sia la povertà…non l’hai conosciuta, io sì. Io so che , se il pubblico, di colpo, smettesse di applaudire, sarei costretto a rincontrare la Signora misera!. Tutto dipende dalla mia voce: assenso, dissenso, applausi, fischi…e io ho paura, Ada, paura che l’incantesimo finisca”. “Enrico, questo non accadrà né stasera né mai!”, lo incoraggia la Giachetti, “Per il pubblico di tutto il mondo sei una leggenda e vedrai che anche nei tuoi concittadini susciterai un vero visibilio; li conquisterai, come hai conquistato me: con l’inconfondibile malìa della tua voce!”.
La sera del 30 dicembre del 1901, purtroppo non andò così. “Il tenore Enrico Caruso, provatosi ne “L’elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, ha reso evidenti le sue reali doti di baritono, deludendo le aspettative di una platea rinomata di intenditori del melodramma”, scrisse Saverio Procida, giornalista del quotidiano: “Il Pungolo“, sulla pagina del giornale dedicata alle recensioni degli spettacoli. “La vita mi ha procurato molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente non possono intendere la natura e le ragioni del mio canto”, replicò il cantante lirico, che, nell’arco di un quinquennio, dal 1895 al 1900, aveva conquistato il mondo. Quindi, incompreso dai critici e dileggiato dal pubblico napoletano, Caruso , di cui si è appena celebrato il centenario della scomparsa, giurò che mai più avrebbe fatto ritorno a Napoli, città in cui era nato il 25 febbraio del 1873. Figlio di Marcellino e di Anna Baldini, entrambi originari di Piedimonte d’Alite, in provincia di Caserta, crebbe con i fratelli in una fatiscente abitazione del quartiere San Giovanniello agli Ottocalli. Abbandonata la scuola dell’obbligo, a otto anni, trovò lavoro come operaio, dapprima nell’officina meccanica “Meuricroffe”, in cui era impiegato il padre e poi, nello stabilimento metallurgico del magnate Salvatore De Luca. Mostrando, però, uno spiccato talento canoro, grazie all’intercessione di Rosa Baretti, conoscente della madre, entrò nel coro della chiesa rionale e, dopo poco tempo, notato dall’ecclesiastico/ maestro di musica Giusppe Bronzetti, in quello della chiesa di Sant’Anna alle Paludi. Conquistata le parte da solista ne “La Messa” di Mercadente e di protagonista nella farsa musicale “I briganti nel giardino di Don Raffaele”, verso la metà degli anni Ottanta si affermò tra i “posteggiatori”, cantanti e musicisti di strada,ma, ancora una volta, la mediazione di un’amica di famiglia, Amalia Gatto, gli consentì di prendere parte agli spettacoli organizzati dal pianista Schiraldi e dal maestro De Lutto, per la parrocchia dei Santi Severino e Sossio. Adolescente , con una voce impostata sui modi del registro tenorile, nel primo decennio della Bella Epoque, prese a esibirsi , sotto la direzione artistica dei maestri Amitrano e Sarnataro, nel cafè chantant “Mannesi” e nelle osterie “Monaco” e “Strasburgo“, in piazza Municipio. Determinante per l’ingaggio al “Gambrinus”, noto caffè letterario della città, fu l’incontro e l’amicizia con il collega Gerardo L’Olandese, che lo introdusse nella cerchia degli assidui frequentatori del locale. Non ancora ventenne, nel 1888, rimasto orfano di madre, deceduta a causa di un focolaio di tubercolosi sviluppatosi e diffusosi nelle periferia napoletana, abbandonò la città per via dei numerosi contrasti con il padre determinati dalla volontà di quest’ultimo di risposarsi. Nel 1894, chiamato alle armi, trascorse a Rieti qurantacinque giorni sotto il duro regime della vita militare poi, per l’interessamento del Maggiore Magliati, fervido melomane, sostituito dal fratello Giovanni, potè tornare agli studi musicali. Così, nel 1895, debuttò presso il “Teatro Nuovo” di Napoli, come tenore, nell’opera di Domenico Morelli: “L’amico Francesco” , cui seguirono le pièce musicali “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni e “Il Rigoletto” di Giuseppe Verdi, rappresentate nei Teatri “Mercadante” e “Bellini”. Al termine di una tournèe siciliana in cui aveva raccolto consensi con la messa in scena de: “La Gioconda” di Amilcare Ponchielli e de “I Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, convocato dal compositore Giacomo Puccini a Livorno, per un’audizione , fu scritturato come protagonista de “La Bohème“. In tale fortunata circostanza conobbe la soprano Ada Botti Giachetti, interprete femminile del dramma musicale, che, finita la stagione lirica presso lo stabile toscano, seppur moglie e madre di un bambimno, intraprese con lui una relazione e divenne sua convivente. E, nel luglio del 1898, rientrato da un tour europeo, nel corso del quale fece conoscere al pubblico francesce e russo le trame sinistre del “Mifistofele” di Arrigo Boito e la commovente storia dell’amore negato di “Aida“, dramma in musica composto da Giuseppe Verdi, apprese della nascita del primogenito Rodolfo. Nello stesso anno, “La Bohème” di Giacomo Puccini, diretta dal maestro Arturo Toscanini, fu accolta freddamente dalla platea milanese del “Teatro alla Scala” , indispettita per il violento alterco e le numerose incomprensioni artistiche intercorse tra il tenore e la “bacchetta d’oro” della lirica italiana. Messe da parte le vedute divergenti , i due artisti trasformarono l’insuccesso in un trionfo ,guadagnando , di replica in replica, la stima dei detrattori più accaniti. Il 30 dicembre del 1901, sbarcato a Napoli, sicuro dell’affetto e dell’ammirazione dei concittadini, cui propose una dinamica interpretazione dell’opera giocosa “L’elisir d’amore“, ne saggiò, invece, l’ostilità, da loro espressa, nel corso della prima, con una pioggia di fischi che accompagnava ogni acuto e Do di petto del tenore. Partito per New York , convinto che Partenope non fosse degna del suo talento e, deciso , dunque, a non farvi più ritorno, ritrovò fiducia in se stesso, grazie alla calorosa accoglienza riservatagli dal pubblico del “Metropolitan” per cui intonò le arie dell’ “Adriana Lecouvreur” di Francesco Cilea. Pioniere ardito, nel 1904, fu il primo cantante a incidere romanze e canzoni, firmando un contratto in esclusiva con l’inglese : “Gramophone e Typewriter Company”, che, garantendogli compensi milionari, gli permise di acquistare, in occasione della nascita del secondo figlio, Enrico junior, la villa senese di “Bellosguardo”. Il 1906 fu un anno difficile: scampato al terremoto di San Francisco, non potè sottrarsi alla fine dell’unione con la Giachetti, che, lamentando uno stato si sofferenza dovuto alle sue numerose assenze, lo abbandonò , lasciandogli in custodia i figli. Ultimate le recite americane de “Il Trovatore”, che l’obbligarono a uno sforzo vocale costante, nel 1909, fu operato dal Professor Della Vedova per una lariginte ipertrofica. Tornato al bel canto, nell’arco di pochi mesi, fu protagonista de la “Lodoletta” di Pietro Mascagni , de “La forza del destino” di Giuseppe Verdi, de “La Sonnambula” di Vincenzo Bellini, e de “La fanciulla del West“, nuova opera di Giacomo Puccini. Oggetto di contesa tra la soprano Lina Cavalieri e il baritono Titta Ruffo, ammirato da personaggi illustri come il Presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt, deliziò gli ospiti dei salotti di tutto il mondo con l’esecuzione di struggenti canzoni napoletane: “Torna ‘a Surruiento“, “J’te vurria vasà” e”Core ‘ngrato“. Versatile e in grado di passare da un registro vocale all’altro, ricoprendo anche il ruolo di baritono, il 28 agosto del 1918 sposò la ventenne america Dorothy Benjamin, dalla quale ebbe la figlia Gloria. Nel 1920, celebrati i venticinque anni di carriera con l’annuncio dell’ingaggio per la parte di “Otello”, nell’opera omonima di Giusepppe Verdi, concluse le rappresentazioni de “La Juive“, accusando un forte dolore al petto. In seguito alla diagnosi di pleurite, stilata dai medici statunitensi, venne operato al polmone sinistro. Forzato a un lungo periodo di rioposo , decise di trascorrere la convalescenza a Sorrento quindi , nel giugno del 1921, salpò per Napoli a bordo della nave “Presidente Wilson“, in compagnia della moglie e della figlia. Trascorso un mese nella suite dell‘Hotel Vittoria, le sue condizioni di salute si aggravarono improvvisamente e manifestò la volontà di essere trasportato a Napoli. Qui, nella suite dell’Hotel Vesuvio , la notte del 1 agosto, fu visitato dai Professori: Cardarelli, Moscati e Chiarolanza, che, concordi , dichiararono nel loro referto: “Il quadro del male indica a chiari segni che un processo infettivo generalizzato va svolgendosi a scatti precipitosi”. All’alba del 2 giugno , dopo aver chiesto alla moglie: “Dorothy, fammi portare al sole…voglio vedere il sole!”, spirò dedicando alla città, dopo anni di incomprensioni e di lontananza , un estremo , dolce , sussurrato canto d’amore : “Che bella cosa na jurnata ‘e sole/n’aria serena doppo na tempesta !/ Pe’ ll’aria fresca pare già ‘na festa / che bella cosa ‘na jurnata ‘e sole!/ Ma n’a tu sole/ cchiù bello oi nè/ ‘o sole mio, sta ‘nfronte a te/ ‘o sole, ‘o sole mio, sta ‘nfronte a te , sta ‘nfronte a te”.