I tecnici lo chiamano ergastolo ostativo: vuol dire fine pena mai, senza sconti e senza benefici. Ora la Corte di Strasburgo dice che questo trattamento durissimo va contro l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Strasburgo la pensa diversamente e si mette di traverso con un ragionamento che va oltre: la scelta di abbandonare il circuito del malaffare non sempre è «libera», perché alcuni condannati temono che il loro pentimento metta a rischio «le loro vite e quelle dei loro familiari». Inoltre, la collaborazione non implica automaticamente che il detenuto «non sia più fedele a valori criminali o abbia tagliato i ponti con organizzazioni di tipo mafioso». Insomma, ogni essere umano è più grande del male che ha compiuto e in qualche modo questo dato dev’essere riconosciuto. Ci dev’essere uno spiraglio di luce in fondo alla macerazione in cella. Strasburgo in verità lascia ai singoli stati la facoltà di decidere la pena massima: possono essere trent’anni, pure quaranta, l’importante è che la fine della pena non coincida con la morte di chi la sconta. E questo, obiettivamente, pare ragionevole. Per la Corte «è inammissibile privare le persone della loro libertà senza impegnarsi per la loro riabilitazione e senza fornire la possibilità di riconquistare quella libertà in una data futura». Magari lontana, ma certa. A tutela della loro dignità.
Questo ragionamento, in paese come il nostro afflitto dalla mafia, fa un po’ paura. Anche se la corta da mandato ai paesi membri di ragionare sulla pena, ma la certezza di uscire dal carcere è una boccata di ossigeno per tutti i boss di mafia che devono scontare più di un ergastolo.
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