Ritornare a casa si trasforma in un incubo. Ultimamente le cose sono peggiorate. Da quando ho perso l’incarico annuale come insegnante, non riesco a trovare una nuova collocazione, anche un asilo, purché non debba dipendere da mia moglie. Invece eccomi qui, apro la porta, spero che il Dio mi faccia trovare la consorte meno inviperita del solito. E pensare che fino a qualche anno fa tutto sembrava meraviglioso, invece l’inferno è entrato nel nostro rapporto di coppia, e non c’è sera che non finisce in una battaglia in attesa di quella definitiva che faccia finire la guerra.
<<Ciao amore>>.
<< Il disoccupato è rientrato>>.
<<Non è colpa mia se non si trova lavoro>>.
<<La solita scusa>>.
<<Perché dici così, tu sei fortunata, hai un posto fisso, e non hai nulla a che vedere con noi vittime del precariato eterno della scuola italiana>>.
<<Frottole>>.
Ecco, lei è Marika, la mia dolce metà, che mi accoglie ormai da un anno sempre allo stesso modo. Gli metterei le mani alla gola, non per ammazzarla, ma per fargli sentire la rabbia che covo dentro a dover chiedergli un euro per prendere l’autobus. Marika l’ho sposata con tutto l’amore che provavo dentro. Non l’ho mai tradita, anche se adesso lo meriterebbe tutto un tradimento. Lei non so. Adesso le cose non vanno più bene. Ogni giorno che passa l’amore si sta trasformando in odio profondo. I suoi atteggiamenti ledono la mia personalità. Mi rendono un uomo innocuo. Dopo cinque anni di matrimonio devo anche rassegnarmi all’idea che il suo volere non ha mai voluto che diventassi padre: la cosa che più desidero al mondo.
<< A proposito, disoccupato eterno, è arrivata questa lettera. Per educazione non l’ho aperta, ma sarà un’altra minchiata delle tue>>.
Apro la lettera, è indirizzata a me da una scuola privata della periferia di Roma. È dall’altra parte della città. Fa niente: accetto qualunque cosa pur di liberarmi di Marika.
- Gentile professore, abbiamo visionato attentamente il suo curriculum ed è degno di rispetto. Purtroppo non possiamo offrirle un ruolo in merito alle sue competenze, però vorremmo fare tesoro della sua professionalità per un ruolo diverso ma comunque utile ai fini dell’istruzione. Attendiamo una sua visita nella nostra scuola, poi sarà lei a decidere.
<<Allora, di che si tratta, professorino>>.
<< È una scuola alla periferia di Roma, dall’altra parte della città, mi offrono un ruolo, ma non si capisce bene. Domani ci vado per capire meglio>>.
<<Bene, domani vedremo che tipo d’insegnamento ti affidano>>.
La sua ironia mi turba. Senza nemmeno cenare vado a letto per far passare la serata senza sentire le sue battutacce. Il mattino dopo alle sei sono già alla fermata dell’autobus. Non posso permettermi l’auto, quindi ogni mio spostamento avviene con mezzi pubblici. La mia consorte invece, poiché è occupata fissa, ha la sua auto sfiammante, che io non posso nemmeno toccare. Alle otto sono davanti ai cancelli della scuola misericordia delle suore dello spirito santo. Ero finito proprio nel posto giusto: un po’ di pace mi fa bene. Entro. La madre superiore mi invita ad attendere il preside. Dopo quindici minuti arriva il preside. Dopo i saluti di rito: “Professore, sono certo che anche lei tra pochi minuti sarà di nuovo fuori senza nemmeno pensarci su due volte”. Non capisco bene la sua affermazione. Quasi frastornato: “perché”, chiesi. Il preside non mi diede nessuna risposta. Guarda fisso il lungo corridoio, s’incammina verso la meta prefissata: l’aula che doveva essere mia. Apre la porta: “Professore, benvenuto, se accetta questa è la sua classe”. Rimango di stucco, quasi mi manca il respiro: nell’aula c’erano quindici bambini con la sindrome di down. Tutti in silenzio, quasi fossero abituati al riturale di vedere la porta aprirsi e un maestro a visionarli e decidere se accettare o no. Li guardo anch’io. Sento il cuore in gola dalla tenerezza che mi fanno. Mi guardano fissi. Nessuno dice una parola. Dal banco della seconda fila un bambino, all’incirca sette anni, mi lancia un sorriso particolare, quasi a dirmi dai, non andartene pure tu. Sono frastornato, non capivo più dov’ero. “Accetto”. Il preside mi guarda: “Sicuro professore che vuole accettare”. “Sì, sì che accetto. Questi bambini non hanno nulla da imparare, semmai siamo noi che dobbiamo imparare da loro”. Il preside mi guarda per un istante: “Credo di aver trovato la persona giusta. Grazie professore. Dopo venga nel mio ufficio che regoliamo il contratto”.
Entro nella classe. I piccoli mi guardano con attenzione. Ognuno segue ogni mio movimento con lo sguardo. Facciamo conoscenza, ad ognuno chiedo il nome, l’età, e la professione dei genitori. Osservo le loro risposte per capire il grado di difficoltà. Solo tre di loro mostrano delle difficoltà superiori al resto della classe. Mi scappa un sorriso: io professore di fisica ad insegnare a quindici ragazzi down stupendi, meravigliosi, che avevano bisogno più che di un maestro di un amico. Ed io ero pronto a recepire la sfida lanciata dal destino abbandonando il mio essere professore di fisica e regalare a questi bambini uno stimolo in più per accettare la vita com’è. Finisco la mattinata di approccio, mi reco dal preside per la firma del contratto.
<<Allora professore, è ancora convinto di accettare>>.
<<Non ho dubbi: è una sfida che accetto volentieri>>.
<< Per primo devo dirle che molti dei bambini lasciano la classe alle ore sedici, quindi lei deve restare fino alle 16, però in compenso la mattina può arrivare anche alle dieci, durante la sua assenza sarà una suora ad occuparsi dei bambini. Le sta bene?>>
<<Certo>>.
<< Allora per premiare la sua buona volontà di misurarsi con una avventura diversa dalle sue competenze io e la dirigente abbiamo deciso di premiarla con uno stipendio diverso dagli altri insegnanti. Le offriamo 2500 euro mensili fino a fine anno scolastico. Che ne dice?>>.
<<Non posso ambire a qualcosa di più, già è tanto. La ringrazio signor preside>>.
<<Chiamami Alfredo, sono sicuro che diventeremo ottimi amici. A domani allora>>.
<<Ok Alfredo, a domani>>.
Una volta a casa preparo l’affronto con Marika. Sicuramente il suo atteggiamento porterà ad una accesa discussione. Non mi sbagliavo:
<< Sei un’incosciente, non dovevi accettare: un professore di fisica che fa la balia a quattro ragazzi malati. Cosa diranno le mie amiche quando sapranno che insegni in quella scuola e per giunta a ragazzi con difetti fisici. Domani vai lì e dici che rinunci>>.
<< Marika, sei spregevole. Non sei la ragazza che ho sposato, dolce, simpatica, affettuosa, ma che cazzo ti è successo in questi due anni>>.
<< Si cambia, tutto qui>>.
<<Tu sei cambiata in peggio, non ti riconosco più. Adesso però faccio come dico io. Non mi importa di cosa pensano gli altri, di cosa pensi tu, si fa a modo mio. Ti piaccia o no, la musica è questa>>.
<<Allora trovati un buon avvocato, chiedo la separazione>>.
<<Quando mi arriva la tua richiesta di separazione mi trovo il legale. Meglio interrompere il nostro rapporto che andare avanti con questo tormento continuo. Io ho sposato un’altra donna, e tu oggi non sei quella che ho sposato, quindi meglio separarci che continuare a farci del male>>.
<<Giusto. Ognuno per fatti suoi>>.
Lascio la discussione e mi ritiro in camera. Marika sta diventando insopportabile, aspetto perlomeno che possa ritornare alla ragione e torni ad essere quella ragazza dolce e meravigliosa alla quale chiesi di sposarmi in ginocchio sotto una pioggia battente.
Una volta a letto non faccio altro che fissare il soffitto. Immagino gli attimi del nostro amore, quello vero, quello che ci aveva portato a scoprire le grandi emozioni intime che avevano fatto di noi una coppia affiatata e fortemente innamorata. Quello che vivevamo adesso era frutto di qualcosa che non riuscivo a comprendere. Marika era un soggetto fortemente dolce e sensibile, ora sembra l’opposto del suo essere donna. Marika, nonostante i suoi atteggiamenti violenti e fuori luogo, rimane per me la donna che ancora amo. Ma devo prendere coscienza che qualcosa si era rotto all’interno della nostra relazione, e forse non c’era più nessun modo per riempire quel vuoto d’incomprensioni che aveva rotto quel giocattolo meraviglioso che, insieme, abbiamo custodito con enorme passione complice il nostro profondo amore. Mi addormento pensando.
Continuai il mio percorso di maestro. Insieme ai ragazzi sviluppo molti progetti indispensabili per non farli sentire esclusi dall’altra parte della società. La scuola, grazie al mio impegno, vince il premio istituto dell’anno. Premio ambito da tanto tempo dalla scuola, ma mai raggiunto. Invece, quest’anno, il premio è giunto sia come gratificazione sia come risultato economico che dava ossigeno alle casse della scuola. Il preside ha vuole per forza darmi diecimila euro per l’impegno che ho messo per raggiungere l’obiettivo. Il premio segna il passo verso la fine dell’anno scolastico. Ciò mi dà un senso di tristezza: allontanarmi dai ragazzi, pur cosciente di doverlo fare, mi mette una sorta di malinconia creando quel groppo alla gola simile all’amore. Avevo la certezza che i ragazzi avrebbero perso il senso che in un anno ho cercato di insegnare loro. Così un lampo squassa la mente: perché non portare avanti il tutto con un campo esito? Ma dove, mi chiedo. Certo, sì, sì, da nonno Umberto. Nonno Umberto è il padre di mio padre. È stato per un padre dopo la morte dei miei genitori avvenuta in un incidente d’auto quando avevo appena dieci anni. Nonna Matilde è stata la mamma che non ho più avuto. Quando nonna Matilde ci lasciò, io e nonno abbiamo continuato ad esser e un’unica cosa. Ora ha 85 anni, ma ne dimostra di meno, ed io sono quel figlio che ha perso. In ogni momento di sconforto mi sono rifugiato da lui. Solo adesso non ho il coraggio di dirgli che tra me e Marika sta per finire. Lui gli vuole un bene pazzo come lo vuole a me, gli darò un grande dolore, ne sono certo.
Il mattino dopo mi reco dal preside per informarlo della mia idea
<< Certo, professore, l’idea mi piace. Anche il posto è bello>>.
<<Sì la toscana è meravigliosa, poi la cascina del nonno e una favola. Ci sono prati davanti che sembrano un paradiso sulla terra. Credo che i ragazzi staranno benissimo>>.
<< Professori, i fondi sono pochi, solo questo è il problema principale>>.
<< I diecimila euro del premio che sono destinati a me li metto tutti a disposizione per il campo estivo>>.
<< Non capisco cosa le succede. Perché tutte queste attenzioni per questi ragazzi?>>
<<Hanno raggiunto una dimensione nell’arco dell’anno scolastico. Fermarla sarebbe un danno, invece si separeranno solamente nel mese di agosto per le vacanze con i genitori. E il nuovo anno scolastico sarà ancora migliore di quello che sta per finire>>.
<<Ha ragione. Comunque altri diecimila euro li mette la scuola. Accetto. Il campo estivo si fa>>.
<<Grazie preside>>.
Un’altra ragione c’era: il bimbo che il primo giorno mi sorrise chiedendomi con il suo sorriso di restare, ormai si era legato fortemente a me. Gianluca non ha nessuno. La fine dell’anno scolastico per lui significa la fine delle amicizie e restare con le suore nel convento mentre gli altri compagni vanno via tre mesi. Gianluca è ormai sempre appiccicato a me, e col sorriso mi chiede tutto e, soprattutto, mi dice che mi vuole bene come un padre. Anch’io mi sono legato a lui, forse ho trovato in lui quel figlio tanto desiderato ma mai arrivato per una scelta scellerata di Marika. Questo è uno dei motivi che mi spinge ad organizzare il villaggio nella cascina di nonno Umberto.
Nel fine settimane vado da nonno Umberto. So che adesso devo subire la sua ramanzina per averlo trascurato ultimamente, ma è necessario per studiare insieme come organizzare il campo vacanza. Appena giunto a Stia, nonno quasi non mi guarda: “Dopo sei mesi ti ripresenti, e Marika ormai non viene da un anno e mezzo”. “Hai ragione nonno, risposi. Adesso però ho bisogno di te, quindi basta risentimento, andiamo hai fatti”, rispondo. Gli spiego il tutto. Non c’era bisogno di avere dubbi sulla risposta da parte del nonno: “Questo è tutto tuo, fanne quello che vuoi, poi sarà un motivo per averti un po’ qui come un tempo facevate tu e Marika”. La risposta di nonno era scontata, ma volevo fosse lui a dirlo.
<< Nei tuoi occhi vedo tanto dolore>>, mi chiede il nonno.
<<No, niente, è un momento>>.
<<No, c’è qualcosa che non va. Dov’è Marika. Non vi separate mai, perché ultimamente non è più con te?>>
Abbasso lo sguardo. Spiegare a nonno che tra noi sta per finire è la missione più difficile da compiere.
<<Io e Marika stiamo per separarci>>.
Nonno abbassa lo sguardo, poi lancia un sorriso: “Non posso crederci. Non è possibile. Voi eravate perfetti, come mai siete arrivati a questo?”. Gli racconto un po’ tutta la vicenda. Il nonno rimane per un attimo in silenzio, poi: “No, non capisco, Marika non è mai stata così. È una ragazza meravigliosa. Poi ti ama tanto. C’è qualcosa che non va”. Lasciamo scivolare il discorso su Marika portando invece avanti quello sull’organizaione: le camere dei bambini, della suora che mi accompagna, e se arriva qualche genitore. La cascina è abbastanza grande, quindi spazio a disposizione c’è né. Rimaniamo d’accordo che il prossimo fine settimana mi sarei trasferito in cascina, i ragazzi arrivavano il lunedì con un pullman. Nel frattempo Marika aveva già fissato l’appuntamento con l’avvocato, e quindi mi era giunta la comunicazione. Prima di partire incarico il mio avvocato, ci rechiamo alla prima udienza, e Marika dimostra l’intenzione di andare avanti. Sconfortato, mi rendo conto che Marika non mi ama più e forse nella sua vita è entrato qualcun’altro. Finita l’udienza, vado a casa, arruffo le mie cose e scappo da quel posto che mi mette tanta tristezza. Arrivato a Stia, incomincio a preparare il tutto per il lunedì per accogliere l’arrivo dei bambini. Il lunedì mattina il clacson del pullman annuncia l’arrivo dei piccoli angioletti. Quando scendono si girano intorno, incuriositi, con le bocche aperte ammirano il panorama silenzioso e il cinguettio degli uccelli che suona una sinfonia mai sentita. I genitori, che hanno accompagnato i figli, anch’essi rimangono incantati. Tutti apprezzano la mia scelta di portare i bambini in campagna. Tutti mi chiedono se occorrono contributi economici. Tranquillizzo tutti spiegando che per il momento non c’è bisogno. Suor Gelsomina spruzza gioia dappertutto sapendo di dover rimanere con me. Gianluca poi, come scende dall’autobus corre verso di me, mi salta addosso, e cingendomi le braccia al collo mi dà tanti baci sul collo. Sentivo, anche se non lo diceva, la gioia che aveva dentro per avermi rivisto subito e poter stare con me. Ormai Gianluca sta diventando qualcosa di molto tenero per il mio cuore. I genitori lasciano la cascina con la promessa che sarebbero venuti ogni fine settimane fino alla fine di luglio, poi ad agosto i ragazzi andavano via per recarsi in vacanza al mare con loro. Io non potevo però lasciare da solo Gianluca. Potevo prenotare una vacanza, ma la procedura per portarlo con me non era semplice, quindi desisto. Cosi chiedo a suor Gelsomina di rimanere con me per far sì che il campo proseguisse anche per il mese di agosto e non s’interrompesse la procedura in modo tale da tenere Gianluca con me. Suor Gelsomina non fa obiezioni, anzi, disse: “Perché te volevi andare via”.
Passano velocemente i giorni del primo mese. I bambini vivono l’atmosfera quotidiana con entusiasmo. Nonno Umberto si rivela un collaboratore vitale per portare avanti la carovana. Prende i ragazzi, lì porta in giro per le colline. Scorazzano nei prati senza fermarsi mai. Il cibo è il più naturale possibile, fatto di ricette classiche della toscana. Per i bambini è veramente una esperienza che non dimenticheranno facilmente. Io mi sento soddisfatto della scelta fatta, anche se il mio cuore è addolorato dalla scelta drastica di Marika. Quasi senza accorgermene trascorrono i due mesi di quello che era diventato il campo della felicità. Poi una sera riunisco i bambini intorno al tavolo: “Allora bambini, tra due giorni finisce questa splendida avventura che è iniziata un anno fa, forse il prossimo anno non sarò nemmeno il vostro maestro, però vi vorrò sempre bene. Tra due giorni ognuno di voi andrà via con i propri genitori, andate al mare, lì vi divertite tanto”. Cercavo di prepararli al distacco. Però notai subito nei loro volti il broncio classico dei bambini down. Passa l’ultimo giorno. La sera suor Gelsomina aiuta tutti a rifare le valige, ma nei bambini si legge vistosa la tristezza e la volontà di non separarsi. Purtroppo il mio compito finiva lì: avevo fatto tutto il possibile, ma adesso il limite mi obbligava a fermarmi e restituire i bambini alle volontà dei genitori, come giusto fosse. La notte passa insonne anche per me: il distacco in fondo colpisce anche a me. Alle cinque sono già giù dal letto. Do l’ultimo sguardo nella camera dei bambini. Mi prende un colpo: grido come un pazzo, in camera i bambini non ci sono. Il cuore e il tormento di una fesseria fatta dai ragazzi, mi stringeva il cuore. Subito arriva anche nonno Umberto e suor Gelsomina. Chiamiamo i bambini in quell’alba che iniziava a spuntare. Poi i primi bagliori di luce mi fanno scorgere uno spettacolo mai visto in vita mia. Dai miei occhi scendevano lentamente delle lacrime di orgoglio e di gioia, prima di tutto per averli ritrovati, particolarmente per aver insegnato a quei bambini la sicurezza di saper decidere da soli, e la scena che si presenta davanti ai miei occhi è splendida: tutti insieme erano distesi sul prato dinanzi alla cascina. Con le mani dietro alla testa aspettano l’alba e osservavano il cielo che restituisce i primi fasci di luce. Una scena che descriverla diventa impossibile. Si sono sparpagliati ad una distanza di un metro l’uno dall’altro formando una macchia di bambini a fare da cornice al prato. Splendida come cornice umana formata da angeli dal sorriso d’oro. All’estremità di questo contorno c’era un cartello su scritto: “Sciopero”. Mi avvicino per capire la protesta. Purtroppo il tentativo di capire risulta invano. Non aprono bocca. Alle otto arrivano i genitori. Chiedono dei bambini. “È successo qualcosa a cui non riesco ad ottenere risposta, venite”. Conduco i genitori dall’altra parte della cascina. Davanti ai loro occhi si presenta lo stesso spettacolo presentatosi a me. Tutti capiscono che quei bambini stanno dando a noi adulti una lezione di umanità unica, quella che noi adulti, che ci crediamo sani, non riusciamo a capire. Infondo i ragazzi non vogliono separarsi, vogliono continuare a stare insieme, uniti in un sentimento di fratellanza per non lasciare soli i compagni più sfortunati. In questo caso Gianluca e altri tre bambini che comunque sarebbero ritornati a casa ma non potevano permettersi una vacanza al mare, quindi gli altri sei bambini, in segno di solidarietà, vogliono che il gruppo non si smobiliti. Queste le ragioni ottenute dopo la nostra insistenza. Sia io sia i genitori dei bambini ci rendiamo conto che hanno dato a noi una insegnamento di solidarietà che serviva a ognuno di noi per non farci sottovalutare mai più quei dolci angeli. Dopo un po’ di smarrimento da parte dei genitori, ormai tutti con le valige in macchina destinazione mare, decidono di non poter negare a quella richiesta, quindi accontentare i bambini diventava un obbligo morale. La sorpresa prende anche me: tutti vanno a comprare tende e a noleggiare camper per sistemarsi all’esterno della cascina, dato che posti per tutti non ci sono. Così iniziava un mese di agosto all’insegna della novità non studiata. La prima settimana trascorre immersi in una armonia unica. I genitori partecipano attivamente alle attività dei ragazzi. Molti padri mi dicono: “Forse la lezione è servita per vivere la più bella vacanza della mia vita”. In effetti era così: anche per me è una vacanza che sarebbe rimasta per sempre. Certo, avrei voluto tanto Marika con me, purtroppo il destino mi ha deluso. Nel fine settimane della prima settimana di agosto, il venerdì sera, nonno Umberto se ne esce con una novità: “Domandi vado a Roma. Vado a trovare un amico”. “Allora ti accompagno”, rispondo. “No, vado da solo. Tu resta qui con i bambini, lunedì sano di ritorno”. Per non essere troppo invadente lascio che il nonno faccia come deciso, tanto il lunedì torna. Il sabato mattina va via scomparendo a bordo di un taxi nella strada sterrata che conduce fuori dalla cascina. Il fine settimana passa trascorso in una gita nella città di Firenze, e poi con una domenica ricca di un pranzo preparato dalle mamme dei ragazzi. Il divertimento è assicurato, anche perché la sera anche la cena, sotto il cielo stellato, ci rasserena le coscienze per aver preso la decisione più saggia per il bene dei bambini. Di fatti la loro allegria riempie di gioia il nostro essere adulti sani. Ma era solo una nostra ipocrita presunzione: quei bambini down sono i veri soggetti sani, e noi dovevamo veramente solo imparare.
Il lunedì mattina mi alzo più tardi. I bambini dormono ancora. Mi siedo sul balcone che si trova fuori alla cucina e ammiro il paesaggio. Da lontano vedo arrivare un taxi. Il nonno è stato di parola, mi dico. Quando la macchina si ferma fuori alla cascina mi alzo e sto per esclamare il nome del nonno, quando la voce si ferma in gola. Dal taxi non scende il nonno, ma è Marika. Non capisco. Scendo i pochi gradini che separano il balcone dall’aia della cascina. Marika mi viene incontro, si ferma davanti a me: “Spero che la mia presenza non ti turba”. Il suo tono di voce era di nuovo quello della mia Marika. Cos’è successo? Squilla il telefonino: “Pronto”. Dall’altra parte del telefono: “Stupidone, è arrivata Marika?”. “Nonno, allora c’è il tuo zampino in tutto questo”. “Non potevo fermarmi, avevo bisogno di capire, ed ho capito. Adesso tocca a te capire cos’è successo, e spero che tu capisca le ragioni di Marika e insieme riequilibrate il vostro rapporto. Io resto a Roma, mi faccio una piccola vacanza, vado dal papa. Voi avete bisogno di stare soli e parlare. Mi raccomando, al mio ritorno voglio ritrovare tutto a posto, così possiamo fare una bella festa tutti insieme”.
Il nonno mi chiede il telefono in faccia. Marika mi guarda fissando il mio sguardo smarrito.
<<Devo parlarti>>, mi dice.
<< Cosa vuoi dirmi dopo tutto questo tempo, e dopo che siamo prossimi al divorzio>>.
<<Ascoltami, ti prego>>.
<<Ok, ti ascolto>>.
- “Ho commesso un grande errore un anno e mezzo fa. Un errore che mi è costato caro, ma ora voglio riappropriarmi di quello che è mio e amo più della mia stessa vita: e sei tu. Ma ho bisogno del tuo perdono per uscire da questo incubo. Grazie a nonno Umberto ora sono pronta a riparare al mio errore. Un anno è mezzo fa scoprii di essere incinta. Ero prossima alla promozione, che poi ho ottenuto. Ma non è servita a rendermi felice, poiché due mesi prima avevo gettato nella spazzatura il frutto del nostro amore. Avevo abortito tenendoti nascosto la gravidanza. Ma dopo solo un mese la mia vita è iniziata ad essere un tormento. Da un lato il rimorso di averti ingannato su una cosa cosi bella, dall’altro l’incubo di mamma, quella mamma ingrata e disonesta che aveva ucciso per carriera. Ero disperata. Ogni bambino che incontravo per strada diventava lo strumento per farmi piangere. Per me non c’era più vita, ma solo dolore. Nei tuoi confronti ho intrapreso una battaglia per farti allontanare da me. Avevo commesso il più orrendo dei gesti, e tu non mi meritavi più. Ho pensato più volte di morire per raggiungere il mio piccolo. Credimi, ormai ero una donna finita. Quando mi hai detto che insegnavi bambini, seppur con difetti fisici, ti invidiavo. Non avevo nulla contro di loro, ma solo tanta rabbia e invidia. Ecco, questa è la verità del mio comportamento. Non voglio pietà da te, ma solo perdono. Perdonami, ti prego. Ho avuto solo te come uomo, e solo te voglio continuare ad amare. E solo tu sei l’unico che può farmi uscire da questo inferno”.
Mentre Marika racconta i miei occhi sono pieni di lacrime. In fondo ho sbagliato anche io: non ho capito il suo malessere. La guardo fissa negli occhi: è tornata la mia Marika, dolce e meravigliosamente bella. L’unica donna che amo. Marika si abbassa, s’inginocchia ai miei piedi: “Ricordi quando mi hai chiesto in ginocchio di sposarti. Pioveva a dirotto, tu incurante della pioggia hai espresso il tuo amore. Lo faccio io oggi. In ginocchio ti chiedo di perdonarmi e amarmi come hai sempre fatto, ed io sono pronta a rimediare a l’errore commesso per arroganza”.
La invito ad alzarsi: la fisso negli occhi: “Io un figlio già l’ho trovato”. Marika rimane di stucco alle mie parole: “Come hai un figlio?”. Tranquilla, non ti ho tradito, si chiama Gianluca, vieni, ti faccio vedere”. Porto Marika dietro al cascina, dove a quell’ora i bambini ormai da due settimane, ogni mattina, si sdraiano sul prato ad ammirare il sorgere del sole. Lo spettacolo che si presenta davanti agli occhi Marika e sublime. Piange. Lacrime a fiume scendono dai suoi occhi. Era tornata quella di sempre: dolce e affettuosa. “In mezzo a quei bambini c’è un bambino solo al mondo che si chiama Gianluca, e dopo un anno insieme io sono diventato un padre per lui”, dico a Marika. Faccio un fischio, i ragazzi si voltano e mi salutano con la mano. Gianluca corre verso di me. Quando arriva si ferma, fissa Marika: “È tua moglie”, chiede. “Sì, è mia moglie. Bella vero?”. “Sì, molto bella”, risponde Gianluca. Poi allunga una mano verso Marika: “ Mi chiamo Gianluca”. Con lo stesso sorriso che aveva catturato me un anno prima, allo stesso modo sorride a Marika, fulminandola. Marika si gira verso di me: “Ok, non ho nessun dubbio, per il momento adottiamo Gianluca, poi vedremo per il resto”. Sì, Marika è tornata ad essere la donna che ho amato. La stringo tra le mie braccia, un bacio riporta i nostri cuori a riscaldarsi di una amore che aveva vissuto una tempesta durata molto tempo, trascinandolo in una lava d’incomprensioni che ora stava cessando.
L’amore aveva prevalso, anche grazie all’intervento autorevole di nonno Umberto, a far sì che tutto potesse ritornare al punto di partenza. Marika trascorre una giornata intera a giocare con i bambini, soprattutto a giocare con Gianluca. Sembra rinata, ritornata ad essere quella fanciulla deliziosa che aveva spinto il mio sentimento ad impadronirsi di un angelo profumato come un giardino di rose a primavera. La sera stessa è inevitabile suggellare il ritorno con l’unione dei corpi. Marika arriva in camera con una camicia da notte di seta bianca, sinonimo di purezza. La trasparenza lascia intravedere tutte le sue grazie di donna. Accende il computer, mette la nostra canzone preferita. Con il sottofondo musicale, dopo quasi un anno e mezzo di assenza, dove i nostri corpi erano stati ostaggi di una latitanza forzosa, lascia scivolare a terra la camicia da notte. La sua nudità riaccende il fuoco della passione, unica, e sostanzialmente nostra. L’accarezzo, gli bacio il collo, la stringo in un lungo bacio di passione mista a desiderio di riavere la donna che amo. La spingo sul letto. I nostri corpi s’impossessano dei nostri cuori. Il computer lascia scorrere le sublimi note spingendo il desiderio dei nostri corpi a sfondare quella barriera chiusa per un tempo molto lungo, in quel luogo però l’amore aveva trovato il modo per superare quell’ostacolo che sembrava impenetrabile fino a pochi giorni prima. I corpi si riscaldano inseguendo le note della musica che penetra dentro di noi e scioglie il sangue rimasto a lungo congelato dalla tensione, ma che ora scorreva come una lava d’acqua durante l’alluvione. I nostri corpi si riuniscono per porre fine alle ostilità che, dopo, avrebbero regalato la giusta serenità di cui avevamo bisogno.
Dopo quella sera ci furono altri momenti di grande passione. Quella vacanza particolare giunge al termine. La fine di agosto pone le basi per una ripresa nuova, con Marika ritornata tra le mie braccia, e un ritorno a casa fatto di tante sorprese. Giunti a Roma la portiera mi consegna una lettera, quella che attendevo da diversi anni: avevo avuto la cattedra di professore di fisica all’università. Un riconoscimento che ripagava la mia determinazione. Dispiaceva dover lasciare i bambini nel nuovo anno scolastico. Ma con l’aiuto di Marika trovo la soluzione giusta: la mattina occupo la mia cattedra all’università, poi nel pomeriggio mi dedicavo ai miei angeli col sorriso morbido. Nel frattempo il giudice ci ha concesso l’affidamento di Gianluca, altra soddisfazione che io e Marika abbiamo raggiunto con caparbietà superando tutti gli ostacoli burocratici richiesti dal caso.
L’anno dopo ritorniamo tutti alla cascina dove ci aspetta nonno Umberto. Un nuovo campo estivo si apre per tre mesi. Le novità erano tante: Gianluca era diventato nostro figlio acquisendo il mio cognome e l’affetto profondo di Marika. Gianluca dal canto suo era uscito dalla solitudine conquistando l’amore di due genitori come noi. Nello stesso tempo doveva assolvere il compito di fratellino premuroso stringendo tra le braccia la sorellina, che Marika aveva dato alla luce solo due mesi prima. Insomma, il nuovo campo estivo si presenta più affollato dell’anno precedente, ma è molto più pieno di armonia ma, soprattutto, colmo d’amore. Ormai per me e per Marika, quel posto è diventato la cascina dell’amore. E tutto grazie al sorriso degli angeli.
I fatti narrati nel racconto sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale.
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