Ci sono storie, memorie, che appartengono soltanto a noi, che riempiono di ricordi e di sussulti le scritture private, frammenti, tutto sommato marginali, quasi irrilevanti. Sono fatte da uomini e donne semplici, da quei tanti individui che camminano per le vie e che ci appaiono come volti sfuggenti tra la pazza folla.
“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”, graffiavano mani anonime su una pietra nel campo di concentramento di Bergen Belsen. Per conto di chi parlava quel grido scalfito nella roccia? Parlava per sé, o per tutti coloro che non vengono mai citati nei notiziari, che non hanno biografie, ma sono un labile passaggio per le strade della vita?.
É uno dei passaggi che più ho amato dellʼopera Le rose di Atacama di Luis Sepúlveda, che ci regala lʼesperienza umana e politica di un uomo, di uno scrittore, che ha visto con i suoi occhi gli orrori della dittatura e della violenza sulle donne – dramma che in uno dei racconti dellʼantologia viene affrontato con rara sensibilità – e gli effetti delle diseguaglianze sociali, ma va anche oltre, offrendo al pubblico storie deliziosamente ordinarie.
Erano davvero belle le tue rose, caro Luis, le tue caparbie e coraggiose eroine modernissime, che amavi descrivere e raccontare, ben consapevole che il coraggio è di sovente donna. E poi cʼerano le fiabe. Che parlavano dellʼ impegno ecologista e del valore, meraviglioso e unico, della diversità, dellʼ integrazione come chiave di volta di un mondo in continuo divenire e di eroi imperfetti, spesso riluttanti, ma capaci di fare davvero la differenza al novantesimo minuto. Soprattutto, tra i miei miti giovanili, cʼera lui, Zorba. Il gatto che supera i propri limiti e i pregiudizi per spiccare, in un certo senso, il volo – quello più ardito, necessario per superare le difficoltà insormontabili e tastare il coraggio di un cuore.
Così, quando oggi ho appreso della tua morte, caro scrittore, una lacrima è scesa giù. E la mente ha preso a ricordare…
Era il 2001 quando ti ho conosciuto. Dovevi tenere una conferenza presso il mio liceo. Dio solo sa con quanta gioia andassi, generalmente, in quel girone infernale. Memorie di una ragazzina troppo sensibile, verrebbe da dire. Eppure, quel giorno fu diverso. Sapevo che cʼeri tu, amico invisibile di tante ore spensierate, compagno di mirabolanti incursioni nei miei amati mondi di carta. Ma in quelle pagine, spesso fantastiche, cʼera anche la verità. Quella dellʼessere umano, in tutte le sue sfaccettature. Al termine del tuo intervento, mandai una mia amica a chiedere lʼautografo, quello che adesso, per ironia del destino (sempre lui, cinico e baro!), non riesco più a trovare ma che confido di recuperare in quel caos, a volte allegro e a volte tragico che è la mia camera, metafora della mia vita perennemente sospesa. Poi, sospinta da uno slancio eroico, presi coraggio. Ti fermai, ti feci i doverosi complimenti e ti dissi ciò che avevo amato di più delle tue opere. Parlammo di questo e di Napoli, una città a te particolarmente cara. Furono pochi minuti, a me, invece, sembrò unʼeternità quel tempo prezioso. Ti invitai, a nome dei docenti e della classe, a mangiare una pizza con noi. Tu, che amavi gli incontri casuali e quelli predisposti dal destino, e lʼallegria chiassosa della mia città, sorridesti, quasi sul punto di cedere a quella curiosa richiesta.
E poi…
Ti richiamarono allʼordine. Avevi altri impegni, altre conferenze. Dovevi andare.
Promettesti che saresti tornato e che saremmo andati davvero a mangiare quella pizza
Quel tempo non è mai giunto, come spesso accade. Ma sono certa che avremo più fortuna, un giorno.
In unʼaltra vita, in un altro tempo. E sarà bellissimo parlare ancora di letteratura.
Ma queste, come dicevo, sono solo memorie private di una ragazzina che è diventata grande.
Grazie per la scintilla che hai lasciato. Grazie per le ore bellissime che hai saputo regalarci con le tue storie.
di Eleonora Belfiore