Dopo l’epidemia, si entra nella seconda fase di questa enorme tragedia. Dobbiamo difenderci dal virus, ma dobbiamo anche difendere l’economia italiana. L’attuale momento è il peggiore della storia repubblicana dalla fine della seconda guerra mondiale. Siamo entrai in “economia di guerra”. Non è proprio come una guerra combattuta con le armi, dove il sistema economico deve garantire disponibili risorse per gli armamenti, il mantenimento e la mobilitazione degli eserciti e, dall’altro, organizzare la produzione a sostegno della guerra.
Le fonti di finanziamento di uno stato sono sempre state 4: le tasse dei cittadini, il debito pubblico (sia interno sia estero), le donazioni e l’inflazione. Il limite all’imposizione fiscale è dato dal livello di reddito dei cittadini: più povero è il Paese, meno può ricorrere a questa fonte. Infine, l’inflazione conferisce agli Stati un potere d’acquisto immediato, che però causa notevoli problemi sul mercato monetario. A differenza della guerra, che si punta a mettere in primo piano le necessità di guerra come armamenti e altro, nel caso di questa epidemia si predilige gli ospedali e il sistema sanitario che, in questo caso, sostituisce i militari, quindi la sanità sono le truppe che oggi combattono in prima linea per difendere la vita.
Come in guerra, anche contro questa epidemia il paese ha rallentato la sua corsa, impedendo, per via delle tante restrizioni, il movimento di persone e attività, quindi per lo stato sarà del tutto impossibile incassare le solite risorse che servono per mantenere il paese. Una situazione ancora più grave, poiché si combatte contro un nemico invisibile che colpisce e non lo vedi, mentre quando piovono le bombe tenti di difenderti contro chi ti vuole annientare.
Questa è una guerra mondiale e lo è nel senso vero della parola. Perché la pandemia si è diffusa in ogni parte del mondo. La linea del fronte è nelle case e nelle nostre comunità, che lentamente possono perdere la lucidità di reazione. In questa epidemia la fascia della popolazione più colpita è quella più anziana, mentre in una guerra sarebbe quella più giovane. In una guerra gli uomini adulti rimangono al lavoro e solo i giovani vengono sottratti al sistema produttivo, sostituiti dalle donne. Nel caso di questa pandemia, tutti vengono sottratti al sistema produttivo, dimezzando di molto la macchina produttiva del paese. La domanda associata si ritrae per effetto della quarantena o per il semplice motivo che certe tipologie di esercizi commerciali bar, cartolerie, ristoranti, aeroporti, rimangono chiusi fino a data da destinarsi, poiché non sappiamo fin quando durerà l’epidemia. I pezzi di carta che vengono stampati adesso hanno un valore psicologico: servono per confortare chi sta combattendo la battaglia in queste prime fasi iniziali. Bisogna capire che un’economia di guerra non è compatibile con il mantenimento degli stili di consumo di pace, come anche i vecchi stili di vita. In una economia di guerra è fondamentale che gli stili di consumo cambino velocemente per adeguarsi alla nuova fase di crisi. Questa crisi sanitaria, che stiamo combattendo come una guerra, ha scenari imprevedibili: non si conosce il nemico. Sciaguratamente negli ultimi 30 anni si è costruito un modello economico-societario indirizzato al consumo a tutti i costi. I governi di tutto il mondo hanno speso energie per concentrarsi sulla finanza pubblica ignorando il sistema produttivo e sanitario di una nazione, come sono state ignorate le politiche sociali indirizzate alla persona. Ora in tutto il mondo ci sono più di un miliardo di persone chiuse in casa, queste persone sono lavoratori, padri di famiglia, tessuti produttivi, erano la nazione che si muoveva. Sono stati chiusi in quarantena impedendogli di muoversi è produrre, per la salvezza delle nazioni. L’Italia con l’ultimo decreto del governo rischia di perdere 100 miliardi al mese, portando di fatto l’Italia “in una economia di guerra”. Purtroppo stiamo combattendo una guerra a noi sconosciuta, non si può fare diversamente.