Inverno 1947. New York. All’interno dell’American Negro Theater di Harlem, gli allievi del corso di recitazione ascoltano attentamente la lezione del docente di Drammaturgia,quando il suono della campanella ne segna l’interruzione, dando inizio alla pausa.
Sidney, studente afroamericano, figlio di contadini originari delle Bahamas, trasferitosi poco più che diciassettenne ne “La Grande Mela” , vivendo di espedienti, resta da solo in aula per esercitarsi nella dizione della lingua americana, imperfetta, per via dell’accento “caraibico”, senza accorgersi di essere osservato da un gruppo di ragazzi, fermatosi sulla soglia della stanza.
Dopo aver atteso qualche minuto,il manipolo di adolescenti entra nell’aula, disponendosi intorno a Sidney come a formare un cerchio.
Uno dei ragazzi, avvicinatosi, gli si rivolge, dicendo: “Tu non sei americano, vero?….un americano non parla come te…tu parli una lingua strana…Non sei nativo di New York!…”, esclama con un sogghigno l’adolescente, cui Sidney risponde: “Hai ragione, non sono nato a New York, ma alle Bahamas e poi, con i miei genitori e i miei fratelli, ci siamo trasferiti a Miami, in Florida…ma non importa, perché con lo studio migliorerò fino a parlare con perfetto accento americano!…”.
“Imparare la nostra lingua?…no, non credo proprio!…quelli come te, non possono impararla!…No, non la imparerai mai!…”,sentenzia il ragazzo, cui Sidney domanda: “Cosa intendi con “quelli come te?”…”.
“Intendo: gli stranieri!…sei o non sei uno straniero?… e allora non parlerai mai come un americano vero…figurati recitare, poi!…”, sottolinea con tono caustico l’adolescente.
“Mi dispiace contraddirti, ma ti sbagli, perché penso proprio che diventerò un attore!…recitare, per me, è naturale, come respirare…Nulla, potrà impedirmi di farlo, neppure gli errori di pronuncia!…”, afferma perentorio e determinato il giovane Sidney.
“Convinto tu!…per me, perdi solo tempo…io , fossi in te, farei un lavoro più adatto alle tue possibilità…magari, il contadino…sbaglio o i tuoi genitori sono proprio dei contadini?…potresti dargli una mano, invece di perdere del tempo inutile qui!…”, “consiglia” sarcastico il ragazzo, cui Sidney risponde con fierezza: “E’ vero, i miei genitori lavorano come contadini e quando posso li aiuto anch’io…inoltre, sto proprio pensando di continuare a farlo…Quando diventerò un attore professionista, acquisterò un grande appezzamento di terra!…Bravo!, come hai fatto, mi hai letto nel pensiero?…”.
Poi, suonata la campanella che annuncia la fine dell’intervallo, il branco di bulli si allontana in fretta ridendo e lasciando Sidney nuovamente solo all’interno dell’aula. Qui, rientrato l’insegnante di Drammaturgia, che nel frattempo aveva assistito da lontano alla scena, si avvicina al ragazzo, complimentandosi: “Ottimo, Sidney!, sei stato davvero bravo…te la sei cavata egregiamente!…Io ho visto tutto, ero sulla soglia della porta, ma, vedendoti così determinato e tenace nel fronteggiarli, mi sono detto: “Ce le fa benissimo da solo, non ha bisogno del mio aiuto, non intervengo!…”.
“La ringrazio ugualmente, professore!…”, ringrazia il docente, Sidney, chiosando: “Io non ho bisogno di fare a botte per difendermi…credo siano più efficaci il ragionamento,l’ironia e la pacatezza!…Come nei versi di “Invictus”, di William Ernest Herley: “Io sono il padre del mio destino, il capitano della mia anima”…Nella vita,io ho già scelto chi essere: un combattente gentile!…”.
“Ho scelto di fare del mio lavoro un riflesso dei miei valori. Non sono responsabile per ciò che succede,ma per l’insegnamento che ne traggo”. Così, l’attore e regista Sidney Poitier alla stampa, nel 2009, in occasione della consegna, da parte dell’allora Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, della Medaglia Presidenziale della Libertà.
Nato a Miami il 20 febbraio 1927, da Evelyn Outten e da Reginald James Potier,due contadini e commercianti originari di Cat Island, nelle Bahamas, fino a dieci anni cresce con i sette fratelli in Florida, dove i genitori si erano trasferiti, per poi ritornare in territorio bahamiano a Nassau.
A diciassette anni, invece, si stabilisce con il fratello maggiore a New York, dove vive di espedienti, dormendo in una stazione di autobus.
Arruolatosi nell’Esercito, durante la Seconda Guerra Mondiale, mentendo sull’età, viene assegnato all’Ospedale della Veteran’s Administration, a Northport, dove lavora con pazienti psichiatrici. Tuttavia, in disaccordo con i metodi di cura utilizzati nei confronti dei pazienti, riesce con un espediente ad ottenere il congedo.
Quindi, abbandonato l’Esercito, trova lavoro come lavapiatti, fino a quando,superata un’audizione, entra all’American Negro Theater.
Diplomatosi attore, alla fine degli anni Quaranta, debutta a Broadway con gli spettacoli teatrali “Lisistrata” e “Un grappolo di sole”, riscuotendo un buon successo, per poi abbandonare le tavole del palcoscenico per il Cinema.
Esordito nel 1947 nella “musicarello” “Sepia Cindarella” di Arthur H. Leonard, si fa notare nel ruolo del chirurgo “Luther Brooks” nel film “Uomo bianco, tu vivrai!” di Joseph L. Mankiewicz, cui seguono, nel 1955 , la pellicola “Il seme della violenza” di Richard Brooks, nella quale interpreta un insegnante di scuola con allievi violenti, e i film: “Nel fango della periferia” di Martin Ritt , “La banda degli angeli” di Raoul Walsh e “La parete di fango” di Stanley Kramer, grazie a cui si aggiudica il premio BAFTA come “migliore attore protagonista” e una candidatura al Premio Oscar.
Girate ancora una serie di pellicole di valore quali: “Porgy and Bess di Otto Preminger, versione cinematografica dell’omonima opera jazz di Gerorge Gershwin, “Paris Blues” di Martin Ritt e “La scuola dell’odio” di Hubert Cornfield, nel 1963, si aggiudica il Premio Oscar come “miglior attore protagonista” (secondo attore afroamericano dopo Hattie McDaniel, la “Mami” di “Via col vento”) e un Golden Globe per il film “I gigli del campo”di Ralph Nelson, in cui veste i panni di “Homer”, operaio che, trovatosi nel deserto dell’Arizona, incontra per caso delle suore e le aiuta a costruire una chiesa.
Ancora sul set nel decennio Sessanta, per girare le pellicole: “Le lunghe navi” di Jack Cardiff, “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens, “Stato d’allarme” di James B. Harris e “Incontro al Central Park” di Guy Green, nel 1965, recita nel film d’esordio dell’attore e produttore Sydney Pollack ,“La vita corre sul filo”.
Di nuovo nelle vesti di un insegnante alle prese con una classe turbolenta, ne “La scuola della violenza” di James Clavell, nel 1967, raccoglie un largo consenso, dapprima con la pellicola “La calda notte dell’ispettore Tibbs” di Norman Jewison, tratta dall’omonimo romanzo di John Ball, nella quale interpreta un poliziotto di colore che , in una piccola città del Mississipi,nel profondo Sud degli Stati Uniti, indaga con un collega razzista, con cui finirà per stringere una profonda amicizia, sull’omicidio di un industriale del Nord ,tra le violenze e le ostilità della popolazione locale, e, poi , con il film “Indovina chi viene a cena?” ,diretto ancora da Stanley Kramer , in cui recita il ruolo di “John Prentice”, uno stimato medico afroamericano che deve superare la difficile prova delle presentazioni ai genitori (Katharine Hepburn e Spencer Tracy) di “Joanna” (Katharine Houghton), ragazza “bianca” che ama e che intende sposare .
Ritrovato il personaggio dell’Ispettore Tibbs, nel 1970/ 1971, torna sul set per girare le pellicole: “Omicidio al neon per l’ispettore Tibbs” di Gordon Douglas e “L’organizzazione sfida l’ispettore Tibbs” di Don Medford, per poi cimentarsi nella regia, firmando i film “Non predicare…spara!”, “Grazie per quel caldo dicembre” ,“Uptown Saturday Night” e “Ancora e sempre”.
Raccolto un largo consenso con le pellicole d’azione “Il seme dell’odio” di Ralph Nelson, negli anni Ottanta ,gira i film : “Sulle tracce dell’assassino” di Roger Spottiswoode, “Nikita-Spie senza volto” di Richard Benjamin, “I signori della truffa” di Phil Alden Robinson e “The Jackal” di Michael Caton-Jones.
Diradati gli impegni di attore e ,siglata ancora nel 1990 una pellicola come regista dal titolo: “Ghost Dad-Papà fantasma”, fra il 2000 e il 2002 , è insignito dell’Oscar alla carriera e scrive e pubblica il libro: “La misura di un uomo: un’autobiografia spirituale”, con il quale vince anche dei premi letterari.
Tributato di altre onorificenze e titoli come quello di “Cavaliere e Commendatore onorario all’ordine dell’Impero Britannico”, e di ambasciatore delle Bahamas e dell’Unesco, nel 2009, riceve dall’allora Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, la Medaglia Presidenziale della Libertà per il suo impegno contro il razzismo e le discriminazioni razziali.
Collocato dall’American Film Institute al ventiduesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema, omaggiato di una stella sulla Walk of fame, si è spento il 6 gennaio scorso , all’età di novantaquattro anni, nella sua casa alle Bahamas, in cui aveva fatto ritorno da qualche tempo, circondato dall’affetto dei numerosi figli, avuti ,alcuni, dalla prima consorte Juanita Hardy, e, altri, dalla seconda moglie Joanna Shimkus: Sydney Tamiia , Anika , Beverly Henderson, Pamela, Gina e Sherri Poitier.
Di lui, lo scrittore, docente , esperto di cinema , collaboratore di numerose testate e Direttore artistico del “Festival del Cinema di Roma”, Antonio Monda, ha scritto : “Era molto più che un magnifico attore, Sidney Poitier: era un simbolo, un’icona, un punto di riferimento, un gentiluomo all’antica e un uomo dalla bellezza regale, che incuteva in primo luogo soggezione con quel sorriso luminoso e irresistibile. Aveva conosciuto da vicino l’abominio del razzismo, scegliendo sin da giovane nella compostezza pacata, ma ferma, lo strumento per ottenere il rispetto ed esaltare la propria dignità. Ha trasformato la rabbia in energia positiva senza perdere mai la sua eleganza e la sua classe, e sono pochi gli attori che hanno ottenuto gli stessi straordinari risultati, sia sul piano artistico che su quello dei diritti civili, applicando sempre il principio del less is more”.
Tuttavia, il ricordo più dolce è stato quello della figlia Sidney Tamila, che, in un post su Instagram, ne ha revocato la bontà: “Non ci sono parole. Non c’è un modo per prepararsi a questo. Non c’è prosa abbastanza bella o discorso abbastanza eloquente da catturare l’essenza di mio padre. Sappiamo che ha raggiunto tanti traguardi e che ha cambiato il panorama per tutti coloro che sono venuti dopo di lui. Ha tracciato il sentiero su un terreno che era ostile, in modo che coloro che venivano dopo di lui avessero un cammino più tranquillo. Così, le persone che dicevano che quella montagna fosse solo loro, hanno saputo che appartiene anche a noi e che siamo venuti per restare. Sappiamo quanto fosse dolce e saggio. Quanto fosse grande la sua forza caratteriale e morale. Ma ciò che vorrei che le persone sapessero è quanto fosse buono. Non tutti conoscevano la profondità della sua bontà, che permeava ogni cellula del suo essere. Quel tipo di bontà che gli impediva anche di uccidere il più piccolo degli insetti. Grazie a lui, io sono una maga nello spostare un ragno usando un bicchiere di vetro e un pezzo di carta. Aveva un profondo rispetto per tutte le vite e la consapevolezza che siamo tutti connessi. Sapeva che se avesse ferito qualcuno, avrebbe ferito tutti. Trattava tutti quelli che incrociavano il suo cammino come suoi simili e offriva loro la sua piena presenza. Il mio dolore è causato dalla perdita di mio padre, ma anche dal fatto che il mondo abbia perso tanta bontà. Era un faro. Caldo e brillante. Nonostante la tempesta che gli sferzava intorno, rimaneva fermo diffondendo la sua luce. Le persone che si agitavano in acque oscure, potevano sempre orientarsi verso di lui e nuotare verso la riva. Negli ultimi anni, si era indebolito e la sua capacità di comunicare è venuta meno, ma la sua bontà è rimasta. Irradiava luce attraverso i suoi occhi, il suo sorriso e il più piccolo dei gesti. Io e mia sorella Anika stavamo con lui il più possibile, tenendogli la mano e raccontandogli cose divertenti dette dai nostri figli. Spesso avevamo le nostre sorelle collegate su FaceTime, perché non vivono a Los Angeles .Pensavamo di essere noi a prenderci cura di lui, ma la verità era che lui stava ancora prendendosi cura di noi. In questi tempi incerti, ci ricordava del potere della bontà. Il dolore di averlo perso sembra insostenibile a volte. Mia figlia non potrà saltare nel suo letto e abbracciarlo. Io non potrò poggiare la mia testa sulla sua spalla e sentire il senso di sicurezza che ha portato nella mia vita. Non si siederà più a capotavola nel giorno del Ringraziamento. Ma anche se il corpo fisico non c’è più, la sua bontà rimane e continuerà a vivere nei suoi figli, nei suoi nipoti, nei suoi film, nei suoi libri, in ogni caldo abbraccio offerto ai suoi fan, in ogni consiglio dato e in ogni insetto posato gentilmente in giardino. La sua bontà ha cambiato il mondo e vivrà per sempre. Mi mancherai papà, ti sentirò nel calore del sole sulla mia schiena, nel vento tra gli alberi e ti cercherò tra le stelle dove di certo sei. Ti amo”.