Ven. Mar 24th, 2023

Mi chiamano la bisbetica domata, ma in effetti non so nemmeno io cosa sono. Single per natura o per esigenza, so solo che a quarant’anni sono rimasta sola. Senza più famiglia, genitori andati a migliore vita, fratelli che poco importa di me, insomma, sola come nessuno vorrebbe mai rimanere. A volte mi giro intorno e sento solo vuoto, tanto vuoto. La solitudine ti logora, ti rende la persona peggiore. Ed io sono considerata una persona da evitare a tutti i costi. Ma non so, forse hanno ragione, ma io non mi sento così. Ho cercato l’amore giusto, ma non l’ho trovato. Mi è sempre sfuggito di mano o magari non era quello che io cercassi, così l’ho lasciato andare via senza tentare di fermarlo: l’amore, se è vero, non ha bisogno di trattenerlo, resta senza che tu debba pregarlo per restare. Io ho speso il mio tempo dedicandolo ai miei. Ho lasciato che mi incatenassero intorno alla loro esistenza. Non ho pensato mai a me, a quello che potevo fare io con le mie forze. Mi stava bene, c’erano le pensioni. E sì, ma non avevo pensato a quello che sarebbe successo dopo.  Il dopo non è tardato ad arrivare, e intorno a me c’è stato il vuoto assoluto. La disperazione è stata la mia compagna di viaggio. Oramai arrivata ai quaranta c’è ben poco da fare, anzi, da capire. La sera che sono rimasta sola, intorno a me c’era un vuoto incolmabile, e solo allora ho capito in che trappola ero finita: sola e con pochi spiccioli per andare avanti. Avevo amato i miei cari come non mai, ma quel tempo era terminato, adesso ero io che non avevo chi amasse me, soprattutto, come sopravvivere. Passato il tempo del dolore ho dovuto rimboccarmi le maniche e ricominciare tutto d’accapo. Ed era quella la delusione più grande. La mattina mi alzo presto e giro case e case per guadagnare quel poco che mi permette di vivere perlomeno dignitosamente. L’affitto ormai me lo paga il comune. Insomma, la povertà si è impossessata del mio essere. Di tutto un botto sono passata dall’agiatezza alla miseria. A volte mi chiedo se esiste qualcosa pure per me. Sento parlare spesso di destino, certamente si è accanito su di me, e non ha nessuna intenzione di lasciarmi in pace. Spesso sento anche parlare del destino come costruttore di strade. Ma la mia evidentemente non riesce proprio a progettarla. O mi sbaglio? Infatti, il destino esiste per davvero, e solo più tardi l’ho capito!!!

Una mattina di pieno inverno, come tutte le mattine, cammino lungo il lago di Bracciano dentro il comune di Anguillara, per recarmi a lavoro a pulire le case per guadagnare quel poco che mi consente di non sentirmi finita. Ma questa mattina qualcosa sta per accadere, evidentemente il mio destino ha trovato il tempo per progettare anche la mia strada. C’è una foschia fitta, non si vede a un metro, mentre cammino urto qualcosa: “Ma che cazzo, non vedi”, grido. Alzo gli occhi e davanti a me c’è un uomo meraviglioso, lo guardo, vorrei chiedergli scusa, ma la bisbetica che è in me è già uscita fuori. Lui mi guarda, sorride, “Come sei dolce”. “Ma questo è scemo”, mi chiedo. Lo guardo ancora, e vado via. Durante il giorno non faccio altro che pensare a quell’uomo mai visto in paese. Alto, capelli brizzolati, occhi scuri, un bel sorriso, il sorriso mi rimane appiccicato mentre mi dice che sono dolce. Sì, è vero, sono dolce, ma nessuno ha mai scoperto la mia dolcezza, lui sì, chissà come ha fatto.Il destino evidentemente ha davanti a se, dopo tanta tristezza, il progetto nuovo per la mia vita. Dopo questo incontro spero ogni mattina di vederlo, ma passa il tempo e ciò non succede. Allora, penso, il destino non è ancora pronto. Ma ancora una volta mi sbaglio. Una mattina, solito orario, questa volta non lo urto, mi sta aspettando. Appena arrivo vicino a lui mi porge una rosa rossa dicendomi “Sei la donna più dolce che abbia mai incontrato”. Lo guardo stupita, e prendo in mano la rosa. Non mi escono parole, sono impietrita davanti a tanta gentilezza. Lancio un timido sorriso, non riesco a fare altro. Scappo via. “Ma cosa avrà in mente il mio destino?”, mi chiedo. Ora veramente ho paura di una svolta. Passano i giorni, e ogni mattina il mio buongiorno me lo porta questa persana attraverso una rosa rossa. Non so nemmeno il suo nome: ci guardiamo, sorrido, e poi vado via. Una domenica mattina, come è di mio solito fare, vado a messa. Uscendo dalla messa me lo ritrovo davanti. Arrossisco, ma felice che lui sia lì. Mi viene vicino e rimette nelle mie mani la solita rosa rossa: “Ti va di fare colazione con me”. Impietrita come sempre, accetto. Ci dirigiamo nel bar affianco alla chiesa, ci sediamo, e lui ordina una colazione per due. “Che fai di bello oggi. Che pranzi?”. Sembra un interrogatorio, imbarazzante per me.Cosa devo rispondergli, che come ogni domenica non faccio nulla, che preparo un piatto di pasta, lo mangio da sola, e poi via a dormire un po’ per risvegliarmi il mattino dopo per ritornare a fare la solita vitaccia. Veramente non so cosa riponderagli, così mi limito a dire nulla. “Bene”, risponde lui, “Che ne dici di andarcene a pranzo insieme”. “Dove”, rispondo di istino. Nella piazza vicino al lago, un po’ più su c’è un ristorante, e lui con il dito mi indica proprio quel ristorante. È il più costoso della zona. “Si vede che non sei del posto, quello è il ristorante più costoso della zona, ma sei pazzo, quelli dissanguano”, gli dico. “Io non ho detto che devi pagare tu, quindi il problema è il mio, tu devi solo ordinare ciò che ti piace mangiare”, mi fa con un sorriso. Andiamo via dal bar, passeggiamo lungo il lago. Per me, dopo dieci anni è una domenica diversa. A quest’ora sarei già sulla sedia, magari con un panino in mano, mangiato in solitudine, e poi lì, sempre seduta, ad aspettare la notte e poi il nuovo giorno, per poi iniziare una nuova settimana di lavoro. Ma oggi no, sono qui che passeggio al fianco di un uomo che mi riempie di attenzioni. Passeggiamo come vecchi amici nonostante ci conosciamo poco. Ammazziamo il tempo prima che si faccia ora per andare a pranzo. Parliamo di tante cose, ma nulla della nostra vita. Infondo è meglio così, avrei ben poco da dire a riguardo alla mia esistenza, se non tanta sofferenza.

Ci dirigiamo verso il ristorante, saranno più di dieci anni che non mi siedo al tavolo di un ristorante. Appena a tavola Marco, così si chiama, mi chiede di ordinare ciò che mi piace. Cerco di evitare piatti costosi. Ma mentre passeggiavamo, lui furbo, mi aveva fatto dire ciò che mi piace a tavola. Quindi ordinavo qualcosa di meno costoso e lui invece ordinava per me piatti sofisticati. Il pesce, una cosa per cui vado pazza, lo evito, ma lui ordina pesce a volontà. Non avevo mai conosciuto una persona così a modo. Il pranzo scorre in tutta tranquillità, tra una battuta e l’atra, iniziamo a scoprirci di più. Per me è una situazione insolita, ma piacevole. Per una volta mi sento serena. Dopo pranzo mi fa “che ne dici di andare a casa mia, ti faccio conoscere mio figlio”. Il mondo mi crolla addosso. È sposato. “Sei sposato”, gli chiedo. Lui non risponde, mi sorride. Incuriosita accetto.

Appena entriamo in casa, un cane si avvicina a me, io che sono terrorizzata dai cani, quasi scappo via. “Ecco, questo è mio figlio”,  fa Marco. “Credevo fossi sposato”, rispondo. “No, mai sposato, io è l’amore abbiamo fatto strade diverse, non ci siamo mai incontrati”. Tomas, così chiama il cane, appena si rende conto che sono terrorizzata, si mette da parte. Marco mi racconta che lo trovò per caso una mattina. Passando vicino ad un contenitore della spazzatura sentiva dei lamenti di cucciolo, apri il contenitore e trovò Tomas. Lo portò subito dal veterinario, ed oggi è il cane che vedo. Lo ha fatto addestrare, ed è talmente intelligente che sembra avere il cervello di un essere umano. O forse i cani sono più intelligenti di noi umani. Restiamo a casa a guardare la TV. Una bella villa affacciata sul lago. Un giardino immenso che si spinge fin sotto la sponda del lago. Un posto incantevole. Rimaniamo in casa fino a sera tardi. Poi mi chiede se vogliamo fare un giro a Roma. Ci mancavo da tanti anni, dissi subito di sì. Mezz’ora ed eravamo già sul lungotevere flaminio. Camminiamo a piedi fino a quando non vedo il cupolone. Non ero mai stata a piazza San Pietro. Gli chiedo se mi ci portasse. Marco non se lo fa ripetere nemmeno due volte. Facciamo una lunga passeggiata fino a via della conciliazione. Entriamo e ci dirigiamo all’interno di piazza San Pietro. Aveva appena smesso di piovere, era l’una di notte, non c’è nessuno. Mi metto al centro della piazza, mi giro intorno, “è bellissima”, esclamo. Sento brividi di gioia impadronirsi di me. Mai successo. Non so perché, ma piango. Marco mi guarda stupito. Non dice niente. Mi guarda mentre io come una trottola giro su me stessa guardando le colonne che circondano la piazza di Dio. Le lacrime non finiscono mai, ed io continuo a girare, sono felicissima. Mi riporta a casa, ormai sono le quattro del mattino.

Il mattino dopo sono uno straccio. Non riesco nemmeno ad andare a lavoro. Ma Marco è già fuori casa mia per portarmi a fare colazione. Accetto, anche se non posso permettermi di stare ferma nemmeno un giorno. Mentre siamo al bar, Marco mi chiede se il giorno dopo andiamo a fare una passeggiata insieme. Resto in silenzio qualche istante, ma poi mi decido a dirgli la verità sulla mia vita:

Senti, Marco, io non posso permettermi di stare nemmeno un giorno ferma, oggi ho fatto una vera eccezione”. Gli racconto tutta la mia vita. Marco resta senza fiato ascoltando tanta tristezza mischiata a molta rabbia. Purtroppo la mia vita ha avuto più risvolti tristi che belli, ed è giusto che lui sappia prima che possa credere chissà che cosa di me. Dai miei occhi scendono lacrime di tristezza miste a un pizzico di vergogna. Marco non dice una parola, ascolta silenziosamente quello che gli dico. Alla fine di tutte le mie parole: “Non ho mai incontrato una persona come te. Sei veramente unica”. Le sue parole mi danno un pizzico di coraggio. Andiamo di nuovo a casa sua. Fuori fa un freddo bestiale, Marco prepara una cioccolata calda. Mi racconta che era un impiegato di banca, ma adesso è in pensione, e con la liquidazione ha comprato questa casa ad Anguillara. Certo, mi chiedo, chissà che liquidazione ha preso per comprare questa villa: dentro è super confortevole, fuori c’è un giardino enorme con piscina. Insomma, è molto grande. Ma credo a quello che mi dice. Fatta ora di pranzo, Marco mi chiede di restare a pranzo. È bravo, sa cucinare. Un primo e un secondo riempiono l’ora di pranzo. Dopo pranzo rassetto tutto e decido di andare via. Un altro giorno passato da vera regina come non mi era mai capitato.

Dopo quel giorno la nostra storia diventa sempre più forte e radicata. Trascorrono sette mesi da quel primo giorno. Marco è una persona eccezionale, per me fa tanto, e non chiede mai nulla in cambio. Un altro uomo avrebbe già chiesto di andare a letto, Marco no, a lui fa solamente piacere avermi accanto per parlare. Io sono confusa, non so cosa mi succede, più passano i giorni e più un minuto senza di lui mi fa impazzire. Mi sto innamorando, mi chiedo spesso. Resta la certezza che ogni giorno che passa mi sento legata a lui. Una mattina: “Sabrina, fermati, ascolta, perché non vieni a vivere qui con me. La casa è grande, c’è posto anche per te. Lascia il lavoro che fai, io posso mantenerti tranquillamente. Dai, fa che possa passare quanto più tempo possibile insieme a te”. La richiesta di Marco mi spiazza. Confusa, mi siedo sulla poltrona per riflettere. Ma ho poco da riflettere, male vada, torno nella merda, però meglio godersi questo sprazzo di serenità. “Ok,Marco, non farmi pentire di questa scelta”. “Tranquilla, solo la morte ci separerà, sei la persona più eccezionale che abbia conosciuto”.

Da quell’incontro strano, che mai avrei immaginato, nasce un amore bellissimo. Le mie giornate non sono più fatte a correre avanti e indietro, da una casa all’altra, facendo faccende domestiche che mi spezzano la schiena. No, adesso la mia giornata inizia con una sinergia diversa. Mi alzo, preparo la colazione, la gusto con estrema tranquillità. Non ho più problemi di soldi. Marco ogni mese mi consegna la sua pensione e mi dice di gestirla. Insomma, mi sento una donna diversa. Passano altri mesi, ormai sono trascorsi dieci mesi. Una sera Marco mi guarda in modo particolare. Vedo nei suoi occhi tanto amore, lo sento, percepisco la sensazione giusta che sta arrivando quel momento magico caratteristica fondamentale dell’amore. Siamo seduti sul divano, Marco si avvicina a me, e tutto magico, le nostre labbra si avvicinano dolcemente. Un bacio desiderato da molto tempo. “ Ti amo Sabrina, è la prima volta che mi succede”. Lo dice con una dolcezza che credevo non esistesse. Invece c’è, esiste, ed è presente ogni giorno. Mi invita ad alzarmi. Mi prende in braccio e mi porta in camera da letto. Ci vuole un attimo per ritrovarsi nudi e avvinghiati sul letto. Sono momenti magici fatti di tanta passione, che descriverla è impossibile. Piango, sì, piango di gioia: in poco tempo sono uscita da una fase di solitudine per entrare in un’armonia inimmaginabile. Sono tanti piccoli attimi di passione, che mi travolgono. Marco è diventato l’unica speranza della mia vita. Marco ormai è tutto per me. Lo adoro. Gli regalo una lunghezza di emozioni che lui ricambia con tanta dolcezza. Siamo entrati in una sintonia che ormai ci trasporterà in un futuro incredibile.

Dopo la sera precedente, per Marco la vita cambia, come cambia la mia. Ci sentiamo un’unica cosa. Io per lui, lui per me. I mesi che passano sono fatti di tanto amore. Io  mi sento una donna realizzata, manca qualcosa, lo sento. Ho sempre sognato l’abito bianco, un giorno vorrei indossarlo. Non ho il coraggio di rivelarlo a Marco. Vorrei tanto che lo capisse da solo, ma il tempo c’è, di sicuro lo capirà.

Ma come sempre succede, il tempo è tiranno, e uccide le aspettative delle persone. Ed ecco che una mattina Marco esce e scompare nel nulla. Non fa più ritorno. Passano i giorni, inizio a impazzire. Il telefono è sempre chiuso. Non so a chi rivolgermi per avere sue notizie. Divento una bestia nera: dalla pace e la tranquillità che ho raggiunto, mi ritrovo in una situazione inaspettata, balorda, pazzesca. Passano sei giorni, sono tentata a rivolgermi ai carabinieri, quando arriva un messaggio sul telefonino, è quello di Marco: “Fatti trovare alla nostra panchina”. Così recita il messaggio. Mi incazzo come una bestia, memorizzo nella mente tutte le parolacce che voglio dirgli. Corro alla panchina come scritto nel messaggio. Aspetto, con me sempre Tomas, ormai diventato una bella parte della mia vita, mi segue. Un cane fedele e tanto intelligente, mi segue passo passo. Mi siedo. Dopo mezz’ora arriva una donna: “Tu sei Sabrina”, mi chiede. È molto bella. Divento di ghiaccio. Cosa significa questa donna? La guardo, lei mi guarda.

Ciao, sono la sorella di Marco”, mi dice. In mano ha due buste. “Cosa significa”, Gli chiedo. “Non domandarmelo, so quanto sai tu, è sparito. Devo consegnarti queste buste e questa lettera, di più non so”. Mi consegna due buste, una grande, e un’altra piccola formato lettera. La apro. È una lettera scritta da Marco. Inizio a leggerla:

Non disperare per quello che leggerai, ma è giusta la decisione che ho preso. Non meriti di soffrire più di quello che hai sofferto. Tu sei stata la donna che ha aperto le speranze della mia vita. Sei la donna speciale che aspettavo. Appena ti ho trovato si è aperto in me la strada dell’amore. Proprio io che non ho mai creduto nell’amore. Invece tu, quella donna che si presentò burbera la prima volta, davanti ai miei occhi sembrò la più dolce del mondo. I giorni a seguire sono stati meravigliosi, non so descriverti cosa ho provato in tutti i momenti che ti ho amato. E proprio in uno di quei meravigliosi momenti, quando tra le mie braccia c’era la donna più speciale di questo mondo, unica, inimitabile, ho capito che era giunto il momento di rischiare. Di mettere la mia vita nelle mani di Dio. Per te devo farlo. Ti starai chiedendo di cosa parlo. Deversi anni fa ebbi un malore, dalle analisi venne fuori che avevo una malformazione vicino al cuore che ben presto mi avrebbe condotto alla morte. C’erano due strade: operarmi subito, ma le possibilità di sopravvivenza erano pari quasi a zero, e l’altra di andare avanti fino a quando arrivassero gli ultimi giorni. Così decisi di trasferirmi ad Anguillara e aspettare la morte immerso nella pace ammirando ogni giorno le acque del lago. E come tutte le mattine mi recavo verso la panchina dove sei tu adesso seduta e dove insieme abbiamo trascorso ore stupende. Ma quella mattina incontrai te. Fino a quel momento non avevo paura della morte, ma poi, trascorso il tempo al tuo fianco, la morte ha iniziato a farmi paura, perché avrei lasciato una donna meravigliosa come te, che mi aveva ridato la gioia di vivere. Allora ho deciso di tentare l’ultima carta che mi è rimasta, quindi sono partito per l’estero per operarmi. Sappi che non è facile, è l’intervento più difficile che ci possa essere. Non aspettarti nulla di buono. Non ho detto nulla a nessuno perché nessuno deve soffrire questo strazio, nemmeno tu, non lo meriti. Se ti restituiranno il mio corpo allora vuol dire che il nostro amore aveva un tempo ben preciso, ed è terminato. Ma in mano hai un’altra busta, aprila solamente se io non torno più. Se poi dovesse accadere il miracolo, vuol dire che la apriremo insieme. Non piangere. Sorridi. Lo so è difficile, ma sappi che il tuo sorriso è stato la mia forza. La tua dolcezza la mia speranza. Il tuo amore la certezza che la vita è bella. Ti lascio, amore mio, sappi che sei stata l’unica donna della mia vita, altre non ci sono state”.

Sento di nuovo il vuoto intorno a me. La sorella di Marco mi guarda stupita mentre io piango tenendo stretta tra le mani la lettera. Mi chiede spiegazioni. Gli racconto cosa c’è scritto. Lei piange insieme a me, ora siamo in due a soffrire per un distacco annunciato attraverso una lettera. Siamo inermi. Non è possibile che lui sta per avere un intervento delicato e non sappiamo dov’è. È tutto così assurdo. Sembra tutto uscito da una favola senza un fine logico. La sorella di Marco, desolata quanto me, decide di aspettare con me l’evolversi della situazione. Io però navigo con la mente per capire se Marco mi avesse fatto capire perlomeno qualche volta dove potesse essere diretto. Niente. Ho solo nelle mani quella busta bianca, grande, che Marco mi ha chiesto di non aprire. Non posso deludere la sua volontà. Mentre la giro e rigiro nelle mani, mi accorgo di un indirizzo, è quello di un notaio che si trova a Viterbo. Un lampo illumina la mia mente. “Vedi quella villa laggiù, quella è la nostra, vai lì e aspettami, io vado da Marco”, indico alla sorella di Marco. “Ma che stai dicendo, sei pazza, dove vuoi andare”, mi risponde. “Fai come ti ho detto, domattina ti chiamo e ti faccio sapere”, gli dico. “Vengo con te”. “No”, vado da sola, tu torna a casa e aspettami lì”, gli rispondo. Corro verso la piazza del paese. Ogni sera c’è un agricoltore che parte e va a Viterbo, cerco di trovarlo, mi serve un passaggio. Lo intravedo da lontano. “zi robè…zi robè”, gli grido. “Sabrina che hai, sei agitata, cosa succede”, mi risponde. “Niente, mi serve un passaggio a Viterbo”, gli chiedo. “Va bene, andiamo”. Sono le quattro del pomeriggio, inizio il viaggio unico e più difficile della mia vita. Durante il tragitto racconto a zi robè quello che mi è successo. Capisce che vado di fretta e accelera.

Mancano poco alle sette che già siamo a Viterbo. Corro verso la strada del notaio. La trovo. Le luci dello studio sono ancora accese. Tiro un sospiro di sollievo. Salgo le scale di corsa. Busso. La segretaria non vuole farmi entrare. Così gli dico di dire al notaio che c’è Sabrina, la donna di Marco. Dopo un po’ torna la segretaria e mi fa accomodare. Entro nello studio del notaio. Ad accogliermi un uomo di mezza età. Appena gli sono davanti: “Dimmi dovè Marco, tu lo sai di sicuro, sei il suo notaio. Marco sta per avere un intervento ed io devo correre da lui, dimmi dov’è”. “Marco mi ha detto di non dire nulla a nessuno”, risponde il notaio. “Allora sai dov’è? Dimmelo”. “Non posso”, ribatte lui. Riprendo fiato e cerco di essere più convincente: “Marco è la mia vita. L’ha trasformata completamente. Senza di lui non posso più vivere, perlomeno dammi la possibilità di vederlo per l’ultima volta. Fammi stare al suo fianco in questo triste momento. Ti prego”. Il notaio alle mie parole si commuove: “Va bene, hai ragione tu”. Tira da un cassetto un biglietto aereo: “Alle quattro dovevo partire per Londra per stare vicino a lui e poi sbrigare tutto quello che c’era da sbrigare dopo l’intervento se finisse male. È giusto che vai tu. Adesso chiamo all’aeroporto, faccio cambiare destinazione dell’utente”. Sorrido. Finalmente posso andare da Marco. “Come sei arrivata qui?”, mi chiede il notaio. “A passaggi”, gli rispondo. “Ho capito, ti accompagno a Fiumicino”,  risponde il notaio. “Un’ultimo piacere”, gli chiedo. “Dimmi”. “Mi presti duecento euro, appena ritorno te li porto fin qui”. Mi sorride: “Queste sono cinquecento euro, questa è la carta di credito di Marco, puoi prelevare fino a tremila euro al giorno. Vai, corri da Marco, lo operano domattina alle dodici”.

È una corsa verso l’aeroporto di Fiumicino. Sono le due di notte, il volo c’è alle quattro. Il notaio resta con me fino alla partenza. All’imbarco: “Salutami Marco, e digli che la nostra amicizia non ha mai  fine, e mi perdoni se non sono andato io. È giusto che al suo fianco ci sia una donna speciale come te, che lo ama veramente”. “Lo Farò, ma puoi stare certo, io torno con Marco”. “Me lo auguro. Io e lui siamo stati più di due fratelli. Non immagini come sono triste in questo momento”, risponde. Entro nel tunnel, mi avvio verso l’aereo. Tomas è stato sistemato nella stiva come da procedura per gli animali. Tre ore di volo, alle sette e trenta siamo a Londra. Il tempo di attesa che mi riportino Tomas, tanto bagagli non ne ho. Tomas appena mi vede mi fa tante feste. Capisce che stiamo andando da Marco. Prendo un taxi e mi faccio accompagnare di corsa verso l’ospedale. Ormai sono le dieci del mattino. Arrivo. Cerco di trovare un posto per Tomas. lo metto sotto un albero e gli dico di non muoversi di lì. Tomas è talmente intelligente che qualsiasi cosa gli dici  capisce al volo. Si siede. Ed io scappo verso il reparto. Alle undici mi fanno entrare. Chiedo la camera di Marco. Me la indicano. Sono tutta agitata, quasi svengo. Non mi fanno entrare: lo stanno preparando per l’operazione. Aspetto fuori che esca. Piango, piango. Poi asciugo le lacrime, non deve vedermi piangere. Quando si apre la porta sto per svenire. Lui mi vede, mi fissa: “Sei pazza, come hai fatto?”. “È tutta forza dell’amore. Ti amo Marco”. Dagli occhi di Marco scendono lacrime di dolore sapendo che può essere l’ultima volta che mi vede. Mi chino verso di lui, lo abbraccio fino a soffocarlo sussurrandogli con molta dolcezza mista a dolore: “Non può finire così. Non può finire così. No, torneremo a casa insieme, Dio non spezzerà questo amore, né sono certa. Non può condannarmi di nuovo, non ho fatto nulla di male. Tu sei tutto quello che ho”.  Mi staccano da Marco e lo portano via. Scoppio in un pianto dirotto cosciente che forse è l’ultima volta che lo vedo vivo. Non smetto mai di piangere, è troppo doloroso quello che sto vivendo. Sapere che il tuo uomo non esca più vivo è la cosa più atroce che si possa vivere. Poi che uomo. Un uomo che ha saputo amarmi in modo eccezionale. Che mi ha dato la speranza che la vita non fosse del tutto povera di azioni nei miei confronti. Mi siedo fuori alla sala operatoria. Aspetto. Passano due ore, poi tre, quattro. Mi affaccio dalla finestra per vedere Tomas. È lì, non si muove di un centimetro, anche lui aspetta che io gli faccia sapere qualcosa di Marco. Prendo il telefono e chiamo la sorella di marco: “Sono a Londra, l’ho trovato. È da cinque ore sotto i ferri”. “Ti raggiungo”. Mi risponde.

Passano le ore. L’attesa è infernale. Non so più cosa pensare. Prendo dalla borsa la prima rosa che mi regalò Marco. È appassita, ma è stata sempre il mio portafortuna. La stringo tra le mani come se fosse Marco. Piango. Sono trascorse dieci ore.

Dopo quindici ore di intervento si apre la porta. Esce il professore con un volto stanchissimo. Voglio e non voglio sapere. Ho paura dell’esito. Mi tremano le gambe dalla paura. Gli vado incontro. Il professore mi stringe le mani: “È stato l’intervento più difficile di tutta la mia carriera. Marco aveva tanti capillari avvolti intorno al cuore dalla nascita, più andava avanti e più premevano sul cuore, e prima o poi sarebbe scoppiato. Ma oggi quando ti ho visto abbracciarlo ho capito che il vostro amore era tutto nelle mie mani, non potevo tradirti e dovevo vincere questa guerra professionale per restituirti il tuo amore. Ce l’ho fatta, Marco sta bene, un po’ di degenza e si riprenderà, sarà più forte di prima”. La mia gioia arriva alle stelle. Smetto di piangere. Corro giù, vado da Tomas e mentre gli vado incontro grido a squarciagola: “Ce l’ha fatta, ce l’ha fatta”.Tomas capisce subito che Marco ce l’ha fatta. Corre avanti e indietro come un pazzo e abbaia come non mai. È felice. Siamo felici, troppo felici per sembrare vero. Tomas è stato tutto quel tempo da solo aspettando che io scendessi. Anche il suo cuore era triste quanto il mio. Ma ora, insieme, saltelliamo come due bambini che hanno vinto la cioccolata.

Ritorno su. Marco è stato trasferito nella rianimazione. E sotto coma farmacologico: non può avere nessun tipo di emozioni. Ed io non voglio dargliele finché non si sarà ripreso del tutto. Dopo diverse ore arriva anche la sorella di Marco. È felice della notizia che gli dò. La guardo, mi rendo conto di non aver trovato solo l’amore, ma ho trovato anche una famiglia. La mia vita sembrava inutile fino ad un anno fa, invece adesso mi sento avvolta da tante attenzioni, evidentemente Marco per i suoi familiari è una cosa importante, ed ora anch’io lo sono per loro. Infatti arriva anche il fratello. Come gli somiglia. Anche lui mi stringe forte a se come se mi conoscesse da una vita. Sono persone bellissime che trattano la mia persona come un qualcosa di pregiato. Non ci capisco più nulla, so solo che sono circondata da tante attenzioni. Chi vuole portarmi a cena, chi mi vuole a tutti i costi a riposo, chi mi dice che devo mangiare qualcosa. È troppo tutto questo per una donna come me, che non ha mai avuto un pizzico di attenzioni da nessuno. Mi rimetto a piangere, l’emozione è più forte di me. Non l’avrei mai fatto: tutti a chiedermi perché. Chi mi consola, chi mi abbraccia, ma cosa gli avrà detto Marco sul mio conto. Così lo chiedo alla sorella: “Marco ci ha detto soltanto che aveva conosciuto la donna più speciale di questo mondo. Non si sbagliava. Sei singolare”.

Passano cinque giorni di attesa senza muovermi dalla rianimazione. Anche la sorella di Marco è rimasta appiccicata a me. Solo il fratello si è allontanato qualche volta per andare in albergo a riposare, ma ci resta poco. Dopo cinque giorni il medico ci comunica che lo tirano fuori dal coma farmacologico, quindi riprenderà conoscenza, e del tutto fuori pericolo. Dopo sei ore il professore mi chiama: “Vieni, Marco ti sta aspettando, ha preso completamente coscienza”.

Degli infermieri mi preparano per farmi entrare nella stanza. Indosso un camice verde sterilizzato, mascherina, entro. Appena vedo Marco con gli occhi aperti che mi sorride, inizio a piangere a dirotto. Mi avvicino, appoggio le mie labbra sulla sua fronte, l’unico posto libero da lacci e lacciuoli, e non le stacco più. Marco non può muoversi, assiste impassibile a tutto quell’amore. Mi rialzo. Gli sorrido, tiro fuori dalla borsa la rosa, gli apro la mano e gliela faccio stringere: “Ti Amo, è stato il mio portafortuna, grazie per avermela regalata quel giorno, me la ridai quando esce di qui”. Marco sorride, ha capito il mio gesto. Mi fanno uscire. Gli dò un altro bacio e vado via. Passano altri giorni, finalmente Marco esce dall’intensiva. In reparto le cose vanno meglio. La prima cosa che fa mi chiede di Tomas. Gli dico che è giù, non ha mai voluto muoversi dal posto dove l’ho lasciato quando siamo arrivati. Neanche quando il fratello voleva portarselo con lui in albergo. Niente, con una forza impressionante si è opposto. “Accompagnami alla finestra”, mi chiede Marco. Con passi lenti raggiungiamo la finestra del corridoio dove si vede Tomas. Marco si affaccia, fa un fischio che Tomas conosce a memoria. Lui lo guarda, ed inizia ad ululare. Una cosa che guardo con stupore, non ho mai visto un animale comportarsi in quel modo: Tomas piange dalla gioia. È incredibile. Mi commuovo.

Trascorsi altri giorni di degenza, il professore dice che ormai non c’è nessun tipo di pericolo: si torna in Italia. Siamo tutti raggianti di gioia. Tomas non appena vede Marco gli salta addosso. Lo abbraccia come se fossero due umani. No, è un cane, che ama più degli umani. È una scena degna di un film, invece è realtà. Marco si commuove, piange, anche noi piangiamo, poiché è una scena che ti tocca il cuore. Marco si volta verso di me: “Tieni, questa è tua, è la rosa più bella che abbia mai potuto stringere tra le mani, sei la mia vita”. Mi ridà la rosa, che io ripongo nella borsa delicatamente come un oggetto raro.

Dopo cinque ore siamo finalmente di nuovo ad Anguillara. Riponiamo i bagagli. La sorella di Marco esce a fare spesa perché in casa non c’è nulla. Io dò massima attenzione a Marco. Poche sere dopo Marco mi chiede di fare due passi lungo il lago. Porta con se la busta bianca che mi consegnò la sorella. Raggiungiamo la nostra panchina. Ci sediamo. Marco mi guarda negli occhi senza dire nulla. Mi fissa. Poi, con voce dolcissima: “Aprila”. La apro, tiro fuori i documenti, leggo. I fogli si bagnano tutti, perché la lettura è una qualcosa di eccezionale. Era il testamento di Marco in previsione della sua morte. Aveva lasciato a me la villa. Non era vero che era in pensione, Marco è proprietario di una catena di ristoranti e alberghi. Aveva lasciato a me la sua parte di patrimonio, ed era tanta. Lo guardo: “Io mi sono innamorata di te, non sapevo nemmeno di tutto ciò”. “Ed io non ti avevo detto nulla perché eri l’unica donna che mi stava accanto per come sono e non per i miei soldi. Quindi ho capito che saresti stata la mia donna per sempre, ma soprattutto saresti stata l’erede di tutto ciò, perché meritavi di proseguire la tua vita in piena serenità se io non fossi più tornato”. “Invece sei qui, e questo non serve più”. “Ti sbagli. È  vero, questo non serve più, ma il notaio ne ha già un altro pronto che firmeremo insieme, perché tutto quello che è mio è tuo. Solo la morte ci separerà”.  “Io Ti amo così come sei, non interessano i soldi, non li ho mai avuti, a me interessi tu, quello che mi hai dato è importante, sono felice perché tu sei qui al mio fianco. Solo al pensiero di non vederti più impazzivo. Ti amo così, Marco”.  “Ci ameremo ancora a lungo. Ma quel che ho costruito nel corso degli anni è frutto di sacrifici anche per me, quindi è giusto che insieme ci godiamo tutto dopo tanta sofferenza. Anch’io ti amo cosi come sei, e ti amerò fino all’ultimo respiro”.

Ci alziamo dalla panchina, e coperti dalle stelle, ci baciamo a lungo. Il nostro amore può continuare così com’è nato. Nello stesso posto del nostro primo incontro. Marco mi porge una nuova rosa, la prendo, annuso il profumo, stacco diversi petali e li metto nelle sue mani: “Tienili, conservali come io ho conservato la prima rosa, me li ridarai quando ti sarai stancato di me”. Marco mi guarda, sorride, si avvicina alle acque e lancia i petali nel lago. “Io non mi stancherò mai di te, sei la persona più preziosa che ho. Ti amo più della mia stessa vita. I petali che mi hai dato possono solo scrivere ogni giorno quanto è grande il mio amore per te”. Il nostro bacio dura un’eternità, io sono di spalle alle acque, dopo un po’ Marco mi chiede di girami. Mi volto, guardo il lago, sulle acque c’è un grande cuore di petali rossi, e al centro c’è scritto “TI AMO SABRINA”. Mentre ci baciavamo, pescatori avevano scritto, su ordine di Marco, sulle acque del lago la parola ti amo. E mentre lui mi tiene stretta a se, io gli sussurro nell’orecchio: “Sono incinta, e sono la donna più felice del mondo. Ho un sogno: mi fai indossare l’abito bianco?”. “Certo amore mio, sarai la sposa più splendida di questo mondo. Mi hai reso l’uomo più innamorato del mondo ed ora mi doni anche la gioia di diventare padre, e grazie a te sono ancora vivo, per continuare a vivere tutto questo insieme a te. Senza di te non ci avrei mai provato, mi sarei arreso alla vita. Grazie di esistere, Sabrina”.

L’amore è la forza naturale della vita, ed io e Marco la viviamo profondamente, perché insieme alla potenza della passione abbiamo costruito un castello d’amore.

Questo racconto ha ricevuto la MENZIONE D’ONORE al premio letterario internazionale “Francesco Scerbo”

I fatti narrati nel racconto sono esclusivamente frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale.

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